Ue e stati membri/ Un assetto più moderno per rispondere alla pandemia

Martedì 13 Ottobre 2020 di Francesco Grillo

Ieri sono stati centomila i nuovi contagi in Europa ed è un numero che ci rende, di nuovo, il continente più colpito dalla pandemia.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano appena 13 mila il 27 maggio 2020 mentre la Commissione Europea faceva il conto di quanto l’emergenza sanitaria fosse costata ai Paesi dell’Unione e stimava in 750 miliardi di euro il fabbisogno di investimenti per riparare un’economia devastata dalle chiusure. Il primo aprile, il giorno più nero che l’Unione – totalmente ferma – ha dovuto vivere in questo anno spezzato in due dal virus, i casi erano “solo” 403 mila. 


Next Generation Eu (NGEU), da molti considerato un grande salto evolutivo nella storia delle istituzioni europee, rischia di arrivare - non prima del prossimo giugno - in una situazione già completamente diversa rispetto al momento in cui fu concepito. 


Qualcuno lo ha affiancato per importanza alla vicenda che fu fondamentale per rendere irreversibile la nascita degli Stati Uniti d’America e che, nel 1790, vide l’istituzione di un debito federale su proposta di Alexander Hamilton. E tuttavia sono i numeri della pandemia - solo parzialmente ridimensionati dalla migliore capacità di risposta di società che stanno imparando a convivere con il rischio - a dire anche altro.


E cioè che forse, quando non abbiamo neppure completato il processo di approvazione delle risoluzioni del Consiglio Europeo, si sta già arrivando alla necessità di ripensare perimetro e distribuzione del grande progetto dell’Unione. Se ce ne fosse stato bisogno è questa l’ennesima, più plastica dimostrazione che ormai viviamo in un secolo che cambia con una rapidità che richiede una trasformazione radicale dei meccanismi attraverso i quali governiamo le crisi. Sia a livello nazionale, che europeo, che globale. 


Certo i numeri dei nuovi casi sono parzialmente ridimensionati dalla crescita del numero dei test (e tuttavia in Italia, ad esempio, l’ultimo rapporto tra nuovi contagi e individui testati per la prima volta è, secondo il ministero della Salute, pari a 7,1% ed è il valore più alto dalla fine del lockdown), dalla diminuzione dei decessi (anche se essi tendono, ovviamente, a reagire all’incremento dei contagi con almeno un mese di ritardo) e dalle ospedalizzazioni (che, comunque, sono raddoppiate in tre settimane). Tuttavia, essi dicono di un impatto devastante: più di centomila casi nuovi in un giorno in Europa significa che si bloccano, al giorno, mezzo milione di persone (mediamente quattro per ogni nuovo malato) e queste rimangono ferme per almeno una settimana. 


È uno scenario, quello che rischia di profilarsi, che è peggiore dell’immagine che l’Economist aveva previsto in un famoso editoriale della fine di aprile: il magazine inglese preventivava, infatti, che la fine del lockdown si sarebbe lasciato dietro un’economia al 90%, cioè ridotta – in maniera permanente – di un pezzo non trascurabile e di dimensione assai diversa in molteplici settori produttivi. Oggi, invece, ci ritroviamo a fare i conti con l’ipotesi – assai peggiore – che la stagione delle chiusure non sia affatto chiusa; che ondate di lavoratori e studenti costretti alla quarantena agiscano come un terremoto dalle scosse continue, anche se leggere, destinato a causare cancellazioni, interruzioni di forniture, micro fratture nelle catene di generazione del valore capaci di rendere tutto più instabile. È evidente che, in questo scenario, a diventare incerta è la stessa previsione di un rimbalzo a “V” previsto per il 2021 sulla quale si basa la stessa Nota del ministro dell’Economia Gualtieri che prepara la legge di stabilità.


Alla necessità di rifare i conti complessivi del disastro si aggiunge, peraltro, un loro ribilanciamento tra geografie e settori. In Europa ad essere relativamente meno colpita è – per il momento – proprio l’Italia che fu la prima ad essere investita dallo tsunami. Tra le regioni italiane sembra valere una correlazione stretta: più numerosi sono i casi contati dall’inizio dell’epidemia, minori sono i casi nuovi (e ciò espone il Mezzogiorno a rischi assai elevati). Insomma la stringata analisi con la quale la Commissione misurava i bisogni di “riparazione” e allocava le risorse tra Paesi sembrano diventare vecchi molto prima di atterrare nel mondo reale. 


Non c’era un vero Piano B nella proposta della Commissione (anche se si prevedeva una revisione delle allocazioni entro il 30 giugno 2022) perché, in realtà, è la strutturale debolezza di un’architettura istituzionale ancora ostaggio delle unanimità volute che, inevitabilmente, rende quei meccanismi decisionali troppo lenti per rispondere ad un’emergenza. E arrivati a questo punto non è neppure pensabile aprire un negoziato così complesso come quello che ha dato vita a NGEU (anche se, comunque, è probabile che a bilancio approvato la Commissione proponga un intervento ulteriore, un “top up” sugli strumenti già deliberati). E, tuttavia, costruire un’Unione Europea all’altezza della “nuova generazione”, capace dello stesso livello di efficienza dei Paesi con i quali ci confrontiamo per la leadership – tecnologica, valoriale – del ventunesimo secolo, impone un ripensamento radicale.


A Taormina lo scorso fine settimana, in una conferenza sul “futuro dell’Europa” alla quale hanno partecipato Romano Prodi, Giuliano Amato, Paolo Gentiloni, sono emerse idee molto più radicali di quanto non si sentissero in queste riunioni di Think Tank fino a qualche tempo fa. Un’Europa capace di rispondere al virus dovrebbe avere dagli Stati l’autorizzazione ad indebitarsi fino a un certo tetto secondo criteri predefiniti e, persino, di raggiungere direttamente chi è più esposto alla crisi. Dovrebbe anche sviluppare, ulteriormente, la possibilità (prevista da NGEU) di contare su risorse proprie (ad esempio la tassazione dei giganti della Rete e la tassa sui combustibili fossili) per ripagare il debito. Ed ottenere un più chiaro mandato a produrre raccomandazioni agli Stati su come gestire emergenze quando esse vengono dichiarate globali, per non separare la responsabilità dell’istituzione che cura i danni di un problema da quelle che sono titolari della competenza di contenerne gli effetti.


Tredici anni dopo la rivoluzione americana, l’intuizione di Alexander Hamilton fu quella di trasferire, in maniera permanente, poteri di tassazione, indebitamento e creazione di moneta ad uno Stato Federale. Questa strana guerra può avere l’effetto di rendere possibile re-immaginare un’Unione che, in fondo, nacque nel 1955 in una conferenza a Messina e che era fatta dei sogni di una generazione appena uscita dall’ultimo conflitto mondiale.
 

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