Progetti mancanti/ La ricerca del consenso che rallenta il rilancio

Martedì 1 Settembre 2020 di ​Paolo Balduzzi
L’emergenza Covid ha annullato, per quest’anno, debiti scolastici ed esami di riparazione. Forse preso dalla confusione, lo stesso governo ha pensato di potersi comportare come uno studente poco volonteroso, dimenticando di prepararsi entro l’inizio dell’anno scolastico. È forse questa l’immagine più efficace per raccontare la posizione del governo italiano rispetto agli impegni che dovremo assumerci in sede europea, conseguenti all’approvazione e all’attribuzione del Recovery Fund.

Sì, perché le notizie positive dello scorso luglio sull’assegnazione dei fondi europei hanno forse illuso molti che il più fosse fatto e che il risultato fosse stato raggiunto. Non è affatto così, e l’abbiamo scritto più e più volte anche su queste colonne. La partita sul Recovery Fund (e su tutti gli altri interventi economici dell’Unione europea) non era semplicemente, o perlomeno non soltanto, una questione di diplomazia.

Certo, è stato fondamentale il lavoro squisitamente politico che ha portato alla convergenza dei vari governi e delle varie sensibilità su una posizione solidaristica comune. Lavoro che, è inutile negarlo, ci ha finora avvantaggiati. Ma la partita non è certo esaurita qui. La struttura di aiuti dell’Unione non si caratterizza come un insieme di trasferimenti a pioggia e incondizionati per i Paesi membri, che li possono utilizzare come vogliono per espandere e rinforzare il proprio potere elettorale.

Bensì come fondi condivisi e prestiti agevolati che devono finanziare veri e propri progetti di sviluppo, di resilienza e di rilancio delle economie nazionali, regionali e locali. 
Un approccio, del resto, che dovrebbe essere ben noto al governo e che noi accademici conosciamo molto bene. Ogni volta infatti che il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca pubblica un bando di finanziamento, chi vuole ottenere dei fondi è tenuto a elaborare dettagliati progetti di ricerca e precisi piani di spesa. È una procedura non sempre piacevole da svolgere, ma necessaria tanto per chi bandisce i fondi tanto per i richiedenti.

I primi per sapere naturalmente come verranno utilizzati i soldi pubblici; i secondi per definire le priorità e per delimitare con maggior precisione gli ambiti di intervento. Questo deve fare anche il nostro governo. E, a essere sinceri, le buone premesse a metà estate c’erano tutte. Lo stesso presidente del Consiglio ha più volte ribadito che il governo avrebbe passato il mese di agosto lavorando proprio su questo. Ma agosto è terminato e di questi piani, al momento, non v’è alcuna traccia evidente. 

Non un progetto di ampio respiro, per esempio, sull’emergenza scolastica, ma solo bagarre di basso livello su plexiglass e rotelle; non un progetto di sviluppo, ammodernamento e rilancio delle regioni strategiche del Sud, nonostante le molte belle parole profuse sulla necessità di riscatto del Meridione. Per non parlare della Sanità, che dovrebbe essere il fulcro dei progetti governativi e su cui il silenzio sembra ancora più assordante. Anzi, altro che sviluppo della sanità pubblica: con la scusa dell’emergenza Covid, alcune Regioni - come la Lombardia - hanno colto l’occasione per implementare piani di ridimensionamento e di impoverimento di strutture periferiche ma cruciali, come quelle di montagna.

Al momento non emerge quindi alcun progetto degno dello sforzo che l’Europa ha fatto. Non solo: addirittura è finita nel dimenticatoio la questione dell’utilizzo del Mes, risorse di cui il Paese e la Sanità avrebbero enorme bisogno.

Di che cosa si preoccupa il governo al momento, invece? Certo, ci sono importanti scadenze elettorali tra poche settimane. Ma, con tutta sincerità, questa maggioranza vuole passare alla storia per aver strappato la Liguria al centrodestra, per aver portato a casa un inutile taglio dei parlamentari o piuttosto per aver saputo salvare e rilanciare il Paese nell’emergenza economica, sanitaria e sociale peggiore degli ultimi settant’anni?

Forse - ed è triste anche solo ipotizzarlo - non siamo più abituati a ragionare in grande; siamo solo capaci di rincorrere le emergenze che la nostra stessa ignavia politica causa e ci dimentichiamo che lo sviluppo richiede progettualità. Altro che scadenze elettorali, quindi: sono le scadenze di finanza pubblica sempre più ravvicinate che dovrebbero preoccupare il governo. Entro fine settembre andrà redatta la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef); entro metà ottobre andrà consegnato il piano per l’utilizzo del Recovery Fund e, pochi giorni dopo, andrà presentato il disegno di legge di Bilancio. Insomma, presto i nodi verranno al pettine: come intende il governo stimolare l’occupazione, favorire la transizione a una economia più sostenibile, investire nella digitalizzazione? Se la risposta a queste domande è costituita dagli oltre 170 microprogetti usciti dagli Stati generali di Villa Pamphilj, allora siamo ben lontani da ciò che serve, vale a dire da una visione d’insieme ampia, coordinata e proiettata al futuro. 

Altrimenti, si riproporrà esattamente la tradizionale politica di bilancio italiana che, specialmente negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, altro non ha fatto che ricercare mero consenso elettorale caricandone i costi sulle spalle delle generazioni future. Una pessima tradizione che il nostro Paese farebbe bene ad abbandonare quanto prima.
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