Le risposte da dare/ Come deve cambiare la democrazia per restare tale

Giovedì 13 Agosto 2020 di Vittorio Emanuele Parsi
Le manifestazioni che in questi giorni stanno scuotendo Beirut e Minsk hanno un tratto comune, nonostante i diversi eventi che le hanno innescate: l’insofferenza delle popolazioni di fronte al sequestro delle libertà fondamentali e delle prospettive economiche. Si direbbe che i regimi illiberali e autoritari siano ovunque in difficoltà e che solo una cinica capacità repressiva consenta loro di resistere. Del resto nei mesi scorsi analoghe massicce proteste hanno interessato Hong-Kong, Caracas, Teheran e Baghdad. 

Possiamo allora sperare che una nuova “ondata di democratizzazione” sia alle porte, come avvenne a cavallo degli anni ’80 del secolo scorso? La risposta purtroppo è no. Per capirlo, basta guardare come non se la passino per nulla bene neppure i regimi democratici, anche loro negli ultimi anni alle prese con diffuse ondate di contestazione (dai gilet gialli in Francia al movimento Black lives matter negli Stati Uniti), con la crescita di partiti “populisti” e “nativisti”(si pensi all’Italia, ma il fenomeno non riguarda solo l’Italia), con il peggioramento della qualità e della effettività della democrazia (in Polonia e Ungheria).

Insomma siamo ben lontani da quelle rappresentazioni molto schematiche, un po’ alla Freedom House, ereditate dalla fine della Guerra fredda e dall’euforia legata al crollo dei sistemi comunisti. 

Regimi democratici e regimi autoritari sembrano condividere lo stesso affaticamento di fronte alle proprie cittadinanze, un affaticamento legato sostanzialmente a due questioni cruciali per qualunque società in qualunque epoca storica: 
a) la capacità e possibilità di ogni popolo di autodeterminarsi, cioè di poter decidere del proprio futuro e stabilire chi sia incluso e chi sia escluso dal corpo politico e sulla base di quali criteri; 
b) la relazione tra il regime politico e l’assetto socio-economico, ovvero quanto le istituzioni politiche favoriscono od ostacolano le prospettive di reddito e il tenore di vita del maggior numero dei cittadini.
È invece un’altra la suggestione che arriva dalla fine della Guerra Fredda. Dovremmo cioè ricordare che i sistemi comunisti caddero proprio per non aver saputo fornire risposte adeguate a tali domande e come il tracollo del “socialismo reale” screditò lo stesso ideale del socialismo: così da chiederci se, oggi, le evidenti iniquità delle nostre “democrazie reali” non rischino di mettere a repentaglio la stessa attrattività dei principi e degli ideali democratici. 
Chi oggi si azzarderebbe più a parlare di “fine della storia”, del fatto che la combinazione realizzata tra democrazia rappresentativa ed economia di mercato costituisca il punto di arrivo nella ricerca dell’ordine politico-sociale più desiderabile? La risposta è nessuno, ovviamente: perché se una cosa abbiamo sperimentato a partire dal 1989 è il deterioramento della qualità delle democrazie nella loro capacità di rispondere alle richieste di autodeterminazione ed equità dei propri cittadini.

Oggi i nostri sistemi sono percepiti – e sono – meno equi e meno sovrani rispetto a trent’anni fa. Colpa della globalizzazione? No, semmai colpa del fatto che abbiamo smesso di ricordare che i contenuti della democrazia devono evolvere, affinché i principi della democrazia possano rimanere immutabili. Ma sembra che ce lo siamo dimenticati, anche in Italia, la Patria di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, in un Paese sempre pronto a rivendicare presunte “specificità” e mai conscio abbastanza di quanto le sfide da fronteggiare siano comuni a tutti gli altri, mentre semmai di “originale” ci sono solo le non-soluzioni proposte.
Il paradosso è che le democrazie (realizzate) vincenti negli anni ’80 contro il socialismo (realizzato) erano ancora il risultato della loro trasformazione postbellica, della convergenza inedita tra diritti politici e diritti economico-sociali, del livellamento delle disuguaglianze, della riduzione dei privilegi precedenti e conseguenti al mercato. Questo le aveva rese forti e attrattive. La stagione del Welfare State (Stato “del benessere”, altro che “assistenziale”) aveva costituito un gigantesco sforzo di riformulazione inclusiva dei contenuti della democrazia, un rinnovamento che le aveva fornito nuovo slancio e vitalità. Oggi, ridefinire i contenuti della democrazia è la grande sfida che abbiamo di fronte, il solo modo per rispondere alle preoccupazioni circa l’autodeterminazione e il tenore di vita che proviene dalle nostre società. È esattamente ciò che occorre fare se vogliamo evitare che la difesa ottusa, o interessata, dell’ultima variante di “democrazia realizzata” trascini verso il baratro anche la categoria più generale di democrazia, esattamente come avvenne trent’anni fa con il “socialismo reale” rispetto all’ideale del socialismo.
 
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