​Da Luigi XVI a oggi/ La strategia dell’evento: discontinuità non passerelle

Giovedì 11 Giugno 2020 di Mario Ajello
Da Luigi XVI a oggi/ La strategia dell’evento: discontinuità non passerelle
Un’idea creativa, recuperata da una storia tumultuosa. Ed ecco allora gli Stati Generali. Intento nobile quello di Giuseppe Conte, che chiama a raccolta le migliori energie per dare una scossa di futuro. Ma riuscirà? Tutti se lo augurano, e però il ricordo degli Stati Generali del 1789 a Versailles - ben più maestosa di Villa Pamphilj che pure è un gioiello secentesco - con la convocazione da parte di Luigi XVI dell’aristocrazia, del clero e del popolo diventò l’origine della rivoluzione. 

Nella quale perse sia il trono che la testa (finì ghigliottinato) il sovrano che aveva promosso quell’iniziativa senza accorgersi che la situazione economica e sociale era più grave di quanto avesse immaginato e magari sarebbe servito un choc più immediato e più pragmatico di un’assemblea come quella per spegnere il malcontento e i timori. 

Ma se c’è da augurare lunga vita all’attuale premier, c’è anche da dire che non erano andati bene neppure gli Stati Generali precedenti all’epoca rivoluzionaria. Ossia quelli indetti da Maria de’ Medici del 1614, che furono la cassa di risonanza di tutte le lacerazioni del regno ma non riuscirono a partorire alcuna riforma. Nonostante nella task force ci fosse, in rappresentanza del clero, Richelieu che in quella occasione si fece notare e da allora cominciò la sua scalata al potere fino a prenderselo tutto. 

Ma nell’eterna strategia del super-evento, mai si sono visti nella storia europea Stati Generali kolossal o extra-large o, per venire a noi, più lunghi del festival di Sanremo che non è mai durato dieci giorni come sarà invece per l’iniziativa di Conte. Dove s’intende superare la gara dell’Ariston anche nel numero di grandi ospiti internazionali. E siccome i riflettori saranno tutti puntati su Villa Pamphilj i magistrati hanno deciso di non perdersi la festa e di parteciparvi a modo loro, per niente gradito dal premier, convocando Conte e due ministri per il caso Covid in Lombardia proprio domani, alla vigilia dell’inaugurazione delle kermesse. E c’è qualcuno che, fatte le debite proporzioni tra i due eventi, paragona questa convocazione mediatico-giudiziaria all’avviso di garanzia che arrivò a Berlusconi nel ‘94, in pieno G7 a Napoli. 

Quel che è certo è che qui in Italia gli Stati Generali in chiave maccheronica si sono svolti e continuano a svolgersi su tutto e a dispetto di tutto. Cioè del fatto che spesso si risolvono in perdite o in prese di tempo, in passerelle pompose (gli Stati Generali della Cultura? Sì! Gli Stati Generali della Conoscenza? Anche! Gli Stati Generali della Scuola? Della Legalità? Pure questi!); in gite fuori porta (gli Stati Generali della Montagna? Si attendono quelli della Pianura); in grandi rappresentazioni della conservazione. Ogni volta che i sindacati hanno convocato gli Stati Generali del Lavoro, ed è accaduto a ripetizione lungo la storia della Repubblica, il lavoro è rimasto con la minuscola: poco, scarsamente produttivo, troppo imbrigliato in vecchie regole paralizzanti.

Non è detto naturalmente che questo tipo di evento non possa in qualche caso essere positivo. Una serie di Stati Generali mirati e non generalisti allestiti a Milano dopo la bufera di Tangentopoli (gli Stati Generali degli ingegneri, quelli degli architetti, quelli della mobilità, quelli dell’impresa) hanno contribuito alla ripartenza di quella metropoli uscita a pezzi dal terremoto politico-giudiziario dei primi anni Novanta. E a proposito di città dolenti: magari se fatti seriamente, e fuori da impostazioni ideologiche e da risse tra fazioni, anche per la ripensare la Capitale contro il declino che la sta martoriando gli Stati Generali potrebbero giovare, come accadde con il celebre convegno del 1974 sui «mali di Roma».

Quelli rinunciabili sono gli Stati Generali un po’ pochade e un po’ introspezione finto-scespiriana: to be or not to be? Oppure sono gli Stati Generali di Narciso (auto-celebrativi con messaggio alla nazione del tipo: ciao, come sto?) o quelli denominabili un faro sul vuoto. Ogni volta che la sinistra non sa che cosa essere e dove andare, imbocca la scorciatoia degli Stati Generali, dove si dice tutto cioè nulla. O se va bene, si producono al massimo mini-svolte. Come accadde negli Stati Generali della Sinistra convocati dal Pds nel 1998 (segretario D’Alema) che avrebbero portato alla nascita dei Democratici di sinistra, che però durarono poco. 

O ancora: possono essere il luogo della mattanza questi eventi. Gli sbandierati ma sempre rinviati Stati Generali di M5S per esempio, se davvero si terranno in autunno, si annunciano come uno spargimento di sangue tra correnti e fazioni (il Dibba farà Attila?) tutto da gustare per gli amanti del pulp e speriamo che non deludano. Intanto anche il centrodestra nei decenni ha avuto, a livello regionale, provinciale e nazionale, continui Stati Generali effettuati o molto spesso inutilmente evocati. Nei quali comunque nessuno è mai riuscito a spodestare il re, cioè Berlusconi, il quale ha sempre conservato testa e corona al contrario di Luigi XVI. E stavolta Silvio voleva, ma gli alleati lo hanno fermato, partecipare agli Stati Generali di Conte, perché nel gran teatro dal sapore monarchico il Cavaliere è quasi imbattibile.


Bisognerà in questa occasione evitare il modello diversivo (parlare per non fare) che è quello più frequente nella fisiologia degli Stati Generali. Ovvero «menti brillanti», come le chiama Conte, che usano il pensiero senza indicare subito, nel dettaglio, nei tempi, nei modi, nelle spese e nei rendiconti, come le grandi idee diventano soluzioni pratiche nell’interesse generale. Se così andrà a finire, con il tanto rumore per nulla, il boato del boomerang rischierà di farsi sentire non solo dentro il Pd (quello che più ha da perdere in questo evento che non voleva e in cui si è auto-ingabbiato) ma anche a livello europeo.

C’è un raccontino di Ennio Flaiano, intitolato «Il mostro quotidiano». Narra di una super-evento di «menti brillanti», in cui ci sono - sembra Villa Pamphilj nei prossimi giorni - l’Intellettuale, l’Operaio, l’Industriale, il Condottiero e le Ancelle. Ci si sforza in questo consesso di trovare «un fatto che fa dimenticare i difetti della commedia e la povertà del dialogo». Ma alla fine, il tutto si risolve in niente perché «in fondo si detestano i fatti». Il problema di adesso - ma superabile se la discontinuità diventa fattività e non cerimonia - è che Flaiano ci azzeccava sempre. 

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