Modello italiano/ L'equilibrio da trovare per la stabilità

Mercoledì 10 Maggio 2023 di Ferdinando Adornato

Sarà la volta buona? Dopo quarant’anni di fallimenti, tra bicamerali azzoppate e referendum bocciati, tocca ora a Giorgia Meloni provare a riformare la seconda parte della Costituzione. 
Il suo tentativo parte accompagnato da una certa dose di scetticismo. Eppure è da tempo chiaro a tutti che l’obiettivo di assicurare all’esecutivo un’organica stabilità è tutto il contrario di “un’arma di distrazione di massa”: è, viceversa, diventata una vera e propria urgenza nazionale. 
Pregiudizi ideologici e convenienze di parte hanno però, finora, bloccato ogni riforma.

Perciò Giorgia Meloni, per vincere questa battaglia (che, attenzione, non è un’esclusiva della destra ma, da Calamandrei a Craxi e D’Alema, faceva pienamente parte della cultura della sinistra) deve armarsi di un sano e pragmatico realismo. 

E’ partita con il piede giusto promuovendo un largo confronto tra tutti. Ma il vero esame per la sua leadership comincia ora. Non le basterà, infatti, la determinazione di voler comunque andare avanti: dovrà dimostrare, a differenza di Berlusconi e di Renzi, di saper portare a casa il risultato finale.
Da questo punto di vista sono almeno tre le ragioni che le consiglierebbero di puntare decisamente sull’ipotesi del premierato, cioè dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, con potere di nomina e di revoca dei ministri. La prima è di ordine prettamente politico. Sarebbe insensato, infatti, viste la disponibilità di Renzi e Calenda a dialogare sul “sindaco d’Italia” (e sul superamento del bicameralismo) lasciar cadere la possibilità di coinvolgere una parte dell’opposizione. Cominciare col rompere la logica del “muro contro muro” costituirebbe certamente un primo successo, soprattutto di fronte al sostanziale “niet” di Pd e 5Stelle. I quali da una parte rifiutano decisamente l’elezione diretta del Capo dello Stato ma dall’altra, curiosamente, temono che l’elezione diretta del premier finisca per offuscarne il ruolo, sorvolando sul fatto che, nel nostro sistema, il potere del Colle è stato volutamente disegnato “debole”. E, peraltro, essi non vogliono in alcun modo rafforzarlo. 
La seconda ragione è di ordine costituzionale ma anche di “psicologia popolare”. Gli italiani sono affezionati alla figura del Presidente della Repubblica, una sorta di “monarca moderato” capace di garantire tutti. Non sempre nella nostra storia è stato così: ma da quando il prestigio dei partiti è evaporato, la figura dell’inquilino del Quirinale si è affermata come quella di una solida guida morale, oltre le appartenenze. Ed è proprio questo sentimento popolare ad offrire più di una ragione a chi si oppone a modificarne il ruolo costituzionale. Intendiamoci: il rifiuto del presidenzialismo è un preconcetto ideologico: in realtà non ci sarebbe alcun pericolo per la nostra democrazia nell’approdare, ad esempio, al modello francese.
Ciò nonostante, non sarebbe saggio, da parte di Meloni, ignorare tali stati d’animo che uniscono parti significative di costituzionalisti e di popolo. Del resto, un così radicale cambiamento di sistema avrebbe forse avuto bisogno di farsi legittimare dal voto di un’Assemblea Costituente. Viceversa, procedendo per via parlamentare (bicamerale o meno) è più opportuno seguire il motto “meglio meno ma meglio”, raggiungendo comunque, per la prima volta, l’obiettivo di un’organica stabilità dei governi. 

Infine, la terza ragione che consiglia la via del premierato è di ordine strategico e comunicativo. Se, com’è assai probabile, alla fine si dovesse arrivare a un referendum (tutti finora bocciati) Giorgia Meloni eviterebbe a questo modo sia la trappola delle prevedibili (già pronte) “barricate sul presidenzialismo” sia la strumentale ma insidiosa accusa di voler destabilizzare il ruolo di Mattarella. 
Potrebbe viceversa presentare la riforma come l’orizzonte di un nuovo “modello italiano”, finalmente unificato tra centro e periferia. I cittadini già scelgono direttamente il loro sindaco, ora possono eleggere anche il loro premier. 
Intorno a questo orizzonte le chance di vittoria potrebbero farsi più concrete. Si tratterebbe poi, certo, di cambiare la legge elettorale (doppio turno?) e di adeguare norme e prassi parlamentari al fine di non far loro perdere centralità e funzionalità, anch’esse fortemente indebolite. In conclusione: l’equilibrio costituzionale tra Quirinale e Palazzo Chigi verrebbe modificato di poco ma, per i governi, si aprirebbe una nuova era di stabilità. Chissà se, stavolta, dopo quarant’anni, l’Italia riuscirà finalmente ad avere la sua “Grande Riforma”.

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