​Il nodo pensioni/ Le riforme necessarie dopo la fine di Quota 100

Mercoledì 25 Agosto 2021 di Alberto Brambilla

Nei prossimi anni la sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico dipenderà molto dal rapporto attivi/pensionati mentre la sostenibilità sociale da quanto si svilupperà la previdenza complementare.

Spesso leggiamo previsioni allarmanti sulla sostenibilità finanziaria a causa di un possibile deterioramento del rapporto tra chi lavora e chi è in pensione. E gli allarmi delle istituzioni internazionali sono spesso basati, è fondamentale segnalarlo, su dati forniti dalle nostre istituzioni. A fine 2019 avevamo 1,46 lavoratori attivi per ogni pensionato; è stato il dato migliore degli ultimi 23 anni e in crescita costante, merito quasi esclusivo delle riforme delle pensioni dal 1992 al 2011, visto che poco si è fatto per le politiche attive del lavoro e per la formazione. Se non ci fosse stata la pandemia da Covid-19 probabilmente nel giro di tre anni avremmo raggiunto quota 1,5, non un dato stellare ma sicuramente molto confortante.


In particolare, i pensionati nel 2019 sono aumentati di 30.662 rispetto ai 16.004.503 del 2018, anche se meno di quanto ci si aspettasse per l’entrata in vigore di Quota 100, interrompendo così la riduzione che durava dal 2008; segno che il numero delle cancellazioni delle pensioni in pagamento da molti anni (spesso oltre 35) è stato elevato. Gli occupati aumentano anche nel 2019 raggiungendo quota 23.376.000 (erano circa 70 mila in più nel luglio dello stesso anno), con il tasso di occupazione totale al 59,2%, e 136 mila unità in più rispetto al 2018; a fine 2019 il tasso di occupazione totale è stato pari al 59,1% con un aumento dell’1,02% rispetto all’anno prima, quello femminile al 50,1% (49,6% nel 2018) e quello degli over 50, in virtù delle riforme delle pensioni, al 61%: i migliori di sempre.


Le ultime stime a seguito della pandemia vedono il valore del rapporto scendere a 1,41 nel 2020 per risalire quest’anno all’1,437 con proiezione nel 2022/23 al valore del 2019. Perché questo accada occorre però mettere in atto una serie di iniziative sia sul lato delle pensioni (nuovi requisiti e nuovi strumenti) sia su quello dell’occupazione. A fine anno scade Quota 100 ma restano in vigore le norme di anticipo pensionistico e quelle per i lavori “gravosi” (Ape sociale), le norme per i precoci (quelli che hanno iniziato a lavorare prima di compiere 19 anni), la pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi per i maschi e un anno in meno per le donne e probabilmente Opzione donna; tutte soluzioni introdotte per correggere le imperfezioni della legge Fornero tant’è che a fine 2020, in 9 anni, gli “scampati” alle regole Monti-Fornero grazie alle 9 sanatorie (le prime 2 fatte dalla Fornero medesima) e di tutti gli anticipi offerti dagli ultimi sette governi, sono stati più di 750mila e supereranno 820mila a fine 2021. Inoltre, c’è il tema della cosiddetta decontribuzione, cioè gli sgravi e le agevolazioni che consentono di versare all’Inps meno contributi di quanto prevede la legge; tra il 2015 e il 2019 le decontribuzioni sono costate quasi 20 miliardi.


Dunque, se si vuole garantire la sostenibilità del sistema pensionistico anche per le giovani generazioni la prima azione è limitare al massimo sia le anticipazioni sia le decontribuzioni; in particolare, Quota 100 potrà essere sostituita da una flessibilità in uscita tra i 64 anni (adeguati alla aspettativa di vita) con almeno 38 anni di contribuzione (di cui al massimo tre di figurativa) e i 67 anni e 3 mesi della vecchiaia. Ma attenzione, queste regole devono valere per tutti, anche per i contributivi puri molto penalizzati dalle riforme.
La seconda azione da fare è sostituire tutte le anticipazioni citate (salvo per i casi di lunga disoccupazione) con tre strumenti: i fondi esubero che sono già operativi per banche e assicurazioni e sono a costo zero per lo Stato; i “contratti di espansione” (che prevedono una forma di ricambio generazionale con l’assunzione di un giovane ogni tot numero di prepensionati), con oneri totalmente a carico delle imprese oltre i 250 dipendenti; per entrambe le forme i requisiti sono 5 anni di anticipo rispetto ai 42 anni e 10 mesi (1 anno in meno per le donne), quindi anzianità di 37 anni e 10 mesi (36 anni e 10 mesi) o ai 67 anni di vecchiaia. Infine “l’isopensione”, che consente un anticipo fino a un massimo di 4 anni (7 anni fino al 2023), con costi e contributi figurativi interamente a carico delle aziende con più di 15 dipendenti. Così facendo riusciremo a raggiungere l’età effettiva media di pensionamento in Europa, portando l’attuale età media da meno di 63 anni a poco più di 65 anni; ma soprattutto si ridurrà di molto l’incremento del numero dei pensionati che potrebbero rivedere quota 16 milioni nel 2025/26.


Si tratta di azioni fondamentali se si considera che nei prossimi 15 anni andranno in pensione i baby boomers nati tra il 1960 al 1977 che sono tra 800mila e il milione di attuali residenti per ciascun anno di nascita e che verranno rimpiazzati da coorti molto meno numerose (quelli nati dal 1946 al 1959 sono quasi tutti in pensione). A parziale compenso del pensionamento dei baby boomers nei prossimi anni verranno cancellate circa 1,2 milioni di pensioni che sono in pagamento da 35 anni e più, frutto delle baby pensioni, dei prepensionamenti e altre agevolazioni; un altro milione di pensioni sono in pagamento da 30 a 35 anni. Per incrementare invece il numero di occupati che secondo le nostre stime potrebbero raggiungere quota 23 milioni 400mila a fine 2023, occorrerà rafforzare le scuole professionali che potrebbero generare oltre 200mila occupati l’anno, ridurre a valori minimi l’assistenza e le erogazioni del Reddito di cittadinanza con l’eliminazione del Reddito di emergenza, sostituendo queste prestazioni in danaro con servizi sociali finalizzati all’avviamento al lavoro considerando che le persone in età da lavoro tra i 20 e i 66 anni sono in Italia 35,3 milioni ma quelli che lavorano sono nemmeno 23 milioni. 


*Alberto Brambilla, Presidente Itinerari Previdenziali

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