Apertura di Letta/ Psicodramma Pd, serve un’identità per la ripartenza

Mercoledì 10 Marzo 2021 di Giovanni Diamanti

Le dimissioni di Nicola Zingaretti hanno aperto una voragine nel Partito democratico dalla portata talmente vasta che il crollo di consensi certificato dal sondaggio Swg di lunedì (quasi due punti in meno in una sola settimana) non sembra essere il problema principale per i Dem.

Il primo tema da affrontare, oggi, è di leadership.

In un’epoca di “partiti personali”, come li ha definiti Mauro Calise, il Pd ha rappresentato l’eccezione, l’unica organizzazione a rimanere ancorata agli antichi riti, temperati da una dose di rinnovamento iniziale tradotta in simboli grazie alle primarie. Questa struttura, tuttavia, ha evidenziato tutti i propri limiti: la politica di oggi ha bisogno di un leader che governi il partito in modo carismatico. Certo, non di soli capi vive un partito, e l’organizzazione rimane un fiore all’occhiello per i Democratici, ma non si può sfuggire al nodo della leadership.

Si parla molto, a questo proposito, di nomi femminili, anche in risposta alle polemiche per le nomine tutte al maschile dei ministri Dem. E che il Partito Democratico abbia un problema con la rappresentanza di genere sembra un dato di fatto: pochi giorni fa Francesco Cianfanelli ben evidenziava su YouTrend come negli ultimi cinque anni il centrosinistra abbia candidato solamente due donne nei primi venti comuni italiani. Una scelta femminile, quindi, avrebbe un valore simbolico, quello di inizio di una fase nuova, di un’inversione di rotta che vada oltre la retorica dell’8 marzo.

Non è tutto, ovviamente, una questione solo di consensi e di genere, la crisi del Pd va infatti ben oltre e viene da lontano, e ha a che fare con il nodo - mai risolto - dell’identità del partito.

La narrazione del “ma anche” di Veltroni fu molto criticata a suo tempo per l’idea di confusione identitaria che trasmetteva all’elettorato, tuttavia l’eliminazione di quella formula narrativa non ha portato i risultati sperati: ancora oggi, il Partito Democratico manca di una identità precisa e non può citare battaglie-simbolo, che sarebbero tanto utili a trasmettere un posizionamento all’esterno. Qualunque riflessione futura sul Pd dovrà partire da qui: dove vuole andare il partito erede delle due più gloriose tradizioni politiche italiane?

Le direzioni possibili, va detto, sono diverse. La prima è quella di un partito più radicale, orientato a sinistra, quasi “corbyniano”, magari con un nome nuovo per inaugurare la nuova fase. È la strada probabilmente più semplice per recuperare consensi nel breve termine, ma avrebbe diversi limiti: difficilmente potrebbe ambire a raggiungere consensi maggioritari, recupererebbe consensi tra i 5 Stelle ma al contempo continuerebbe a pestarsi i piedi con il Movimento grillino, e verosimilmente causerebbe una nuova scissione delle anime centriste, l’ennesima, certamente non indolore.

C’è poi la strada del partito “libdem”, in parte già inseguita da Renzi: un partito che guardi al centro, al motore produttivo del Paese, con Macron come riferimento. È la linea del Pd del 2014, quello del record storico di consensi alle Europee, ma è anche la linea del Pd del 2018 e del crollo alle Politiche. Inoltre, rischierebbe di causare una nuova rottura con le forze di sinistra.

In mezzo a queste due prospettive ci sono infinite soluzioni intermedie, forse più credibili. Perché, dopotutto, il Partito Democratico nasce per andare oltre le culture che hanno caratterizzato il centrosinistra nel novecento. Per unire la cultura cristiano-sociale con quella socialista e quella liberale. La prevalenza netta dell’una sulle altre rischierebbe di minare la cultura stessa di un progetto che ha coinvolto, comunque la si pensi, milioni di italiani: non sarà un’alchimia facile, ma è l’unica speranza per ridare slancio al Partito Democratico.

Infine, il futuro segretario dovrà sciogliere un nodo non da poco, quello relativo all’ex premier Conte. Il suo gradimento tra gli elettori Democratici rimane alto, e il nuovo corso contiano tra i 5 Stelle pone i due partiti come competitor più che come alleati. Il rapporto con i 5 Stelle guidati da Conte sarà infatti il primo dei nodi da sciogliere per la futura leadership Pd. I sondaggi lo dicono chiaramente, un rapporto di subalternità rischierebbe di mettere la parola fine all’esperienza democratica: anche per questo, ai Dem serve ripensare una nuova, forte identità.
 

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