Barricate M5S/ La politica dell’apparire che trascura i temi reali

Sabato 7 Maggio 2022 di Paolo Pombeni

Nel caos, nemmeno tanto calmo, che ad ondate investe la politica italiana, la posizione dei Cinque Stelle e la strategia o tattica del loro presidente meritano un’attenzione particolare.

Qualcuno ricorderà che davanti allo stupore di un movimento che aveva guadagnato in non molti anni la rappresentanza di più di un terzo dell’elettorato, il suo inventore e guru, Beppe Grillo, osservò che aveva fatto il miracolo di incanalare la protesta e il rigetto della politica non in una deriva sovversiva, ma in una inserzione, pur estremamente critica, nelle istituzioni democratiche.

Fosse stato così, anche solo parzialmente, sarebbe un buon risultato. Invece, almeno a guardare a quel che accade oggi, l’obiettivo non è stato affatto raggiunto e anzi il movimento ha perso ben più di metà dei suoi consensi. Le ambiguità lo hanno sempre caratterizzato a partire da quando per andare al governo pescò fuori delle sue fila un “professore”, non ignoto ai circuiti dell’establishment, quasi a dimostrare che la tesi del “chiunque può fare alta politica” non era così vera. Per la verità sin dall’inizio Giuseppe Conte non diede proprio prova di voler imporre uno standard che uscisse dalle demagogie con quella famosa frase in cui si definiva “l’avvocato del popolo”.

Ma son cose finite nel dimenticatoio dopo un percorso molto tormentato che ha portato uno dei suoi capi originari, Luigi Di Maio, a diventare un misurato ministro degli Esteri, un altro, Alessandro Di Battista, a rimanere un barricadero da talk show, e l’uomo scelto per guidare i due governi a maggioranza pentastellata senza essere iscritto al movimento, il presidente di un malamente istituzionalizzato M5S. Il tutto continua ad accadere senza che si sia chiarito cosa sono e cosa vogliono essere i Cinque Stelle: l’espressione di un movimentismo demagogico che pesca continuamente e indifferentemente nei mantra e negli slogan che si sono sedimentati in quest’ultimo trentennio di trasformazioni o l’emergenza di una nuova proposta politica razionale ed inserita nel nostro sistema costituzionale per quanto dialettica rispetto alle altre?
Non si può dire che Giuseppe Conte si stia spendendo molto per sciogliere questo dilemma. Potrebbe far pendere per la seconda ipotesi il varo di una “scuola politica” per quadri e militanti dopo tanto predicare contro le competenze, ma per ora è solo un annuncio (altisonante: si parla dell’intervento di premi Nobel). Confermano piuttosto la prima, vecchia, tendenza le scelte fatte dall’ex premier in questa fase. Quanto si agita in materia di armi italiane destinate all’Ucraina, oppure sulla realizzazione di un termovalorizzatore per i rifiuti a Roma sono argomenti da frusta antipolitica. Come non capire che una messa in discussione della nostra seria azione nelle decisioni europee ed euro-atlantiche nella politica di contrasto all’espansionismo russo (che straccia ogni rispetto delle leggi internazionali) non solo indebolisce il nostro governo impegnato in una difficile opera di ricostruzione post-pandemia la quale necessita di credibilità presso il sistema internazionale, ma ci fa apparire come una nazione culturalmente debole contro le demagogie? Come non rendersi conto che il tema della gestione dei rifiuti, della cui drammaticità a Roma sono tutti testimoni, non sopporta fantasiose fughe nell’irrealizzabile, per non accettare una soluzione che funziona già (da Bolzano, a Brescia, a gran parte dei paesi europei) giusto perché si è stati vittima di falsi miti?

La risposta a queste domande non è esaltante. In pesante crisi di consensi e nella prospettiva di dover andare alla prova delle urne (prima amministrative, poi politiche) Conte ha bisogno di visibilità e di serrare le fila almeno col gruppo dei duri e puri. La visibilità, con una comunicazione politica dominata da talk e social, si ottiene accettando di vestire nella commedia i panni richiesti per essere chiamati sul palcoscenico. Da questo punto di vista funziona, vista la presenza mediatica certo non scarsa dell’ex avvocato del popolo (che cerca di ripresentarsi in quella veste).

Peraltro vi è un altro aspetto, meno rilevabile, ma crediamo altrettanto importante per spiegare la scelta del ritorno alle intemerate delle origini. I Cinque Stelle hanno bisogno di restare in alleanza col Pd perché altrimenti il loro peso svanisce e ciò sia che si voti con sistemi maggioritari come alle amministrative e con l’attuale legge elettorale, sia che si passi per le politiche ad un sistema proporzionale (improbabile purtroppo). Non vogliono però apparire come la componente aggiuntiva e poco determinante di questa alleanza, perché, specie per quanto riguarda le competizioni elettorali con sistema maggioritario, vogliono avere un potere di condizionamento e interdizione (per non dire ricatto) nella spartizione delle risorse nei vari collegi (qualcosa di complesso se alla fine non si potrà fare a meno del “campo largo” che prenda in considerazione anche i partiti di centro-sinistra). 

Quel che è dubbio è se davvero per uscire dalle sabbie mobili in cui si trova M5S la strategia o la tattica attuale di Conte sia efficace. La politica non è tutta comunicazione, come piacerebbe a certi cosiddetti spin doctor. E’ realtà, sono problemi da affrontare e risolvere. Contribuire solo a complicare tutto, arrivare sempre sulla soglia del mandare in crisi un governo che funziona (col rischio che poi quella soglia si superi), potrà anche attirare l’attenzione delle platee dei talk, ma dubitiamo possa far acquisire la fiducia di un paese che sempre più si rende conto di essere di fronte ad un tornante storico che non si può affrontare a chiacchiere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Potrebbe interessarti anche