Le disparità geografiche che alimentano le tensioni

Sabato 31 Ottobre 2020 di Paolo Balduzzi

Siamo ripiombati nel pieno dell’emergenza sanitaria.

La situazione, dati alla mano, sembra peggiorare di giorno in giorno. E, di giorno in giorno, il Governo adegua le regole di convivenza: elenco dei doveri sempre più lungo; elenco dei diritti, soprattutto economici, sempre più corto. È proprio l’incalzare degli eventi a provocare la necessità quotidiana di nuove norme. E il risultato è duplice: da un lato, queste si accavallano e a volte si contraddicono causando forte disorientamento e confusione tra i cittadini.

Dall’altro lato, aumenta la tensione in tutto il Paese, a causa dei sacrifici che vengono richiesti. Le violente proteste di questi ultimi giorni sono inaccettabili e devono essere affrontate con la necessaria fermezza; ma le manifestazioni pacifiche, per quanto tese, non possono essere semplicemente ignorate o mal sopportate. Imporre chiusure parziali è necessario per evitare chiusure più ampie, o perlomeno per provare a farlo.

Ma ogni limitazione di libertà deve essere accompagnata da adeguate compensazioni o da condivisione dei costi, soprattutto quando le limitazioni non riguardano l’intera cittadinanza ma solo particolari settori economici. Gli annunci non servono a nulla; anzi, rischiano solo di peggiorare la situazione. Come ben documentato all’interno di questo giornale, le compensazioni previste dal cosiddetto “Decreto ristori” sono in realtà molto più basse di quelle lasciate intendere qualche giorno fa dal Governo, e cioè mediamente pari solo a circa il 40% del volume d’affari medio mensile. Sarà evidente – e tangibile – la delusione per chi si aspettava aiuti più significativi.


<HS9> Ma le discriminazioni, nel nostro Paese, sono anche geografiche. È emblematico, infatti, il caso delle province autonome di Trento e Bolzano, cui probabilmente seguiranno tentativi di altre regioni a statuto speciale, che permettono ai propri impianti sciistici di funzionare quando quelli di valli limitrofe sono chiusi. O ai ristoranti di rimanere aperti fino alle 22.00, a fronte di una regola nazionale che prevede la chiusura alle 18.00. E se nel resto del Paese i ristoratori più intraprendenti stanno caparbiamente reagendo e attrezzandosi per non chiudere e fornire cibo da asporto, nelle zone limitrofe alle province autonome non c’è partita: gli impianti e i ristoranti altoatesini lavoreranno, gli altri no.

Questo discorso non riguarda naturalmente solo l’attività sciistica o di ristorazione e non nasce certo oggi a causa dell’emergenza sanitaria. È dalla nascita dell’Italia repubblicana, e in particolare dall’approvazione dei diversi statuti speciali, che queste differenze esistono, penalizzando in particolare le attività economiche dei territori con cui queste regioni confinano. E non è un caso che molti comuni abbiano deciso di abbandonare la regione di appartenenza geografica per aderire politicamente e amministrativamente a quella limitrofa dotata di norme speciali. Verrebbe da dire: oltre al danno, la beffa.

Sia chiaro: sono il primo a riconoscere le potenzialità del federalismo e la necessità che le differenze locali possano essere soggette a normative personalizzate. Ma non sono affatto sono sicuro che questo sia il modo migliore, più equo e nemmeno più efficiente di affrontare un’emergenza nazionale. Anzi, proprio per fare da contraltare a questi poteri locali, oggi più che mai si sente l’esigenza di una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, che il legislatore possa attivare quando serve. Lo sta facendo la Germania, che è un vero Paese federale: possiamo farlo anche noi. E se proprio si vogliono rispettare le differenze locali, allora regioni e provincie continuano comunque a essere dimensioni troppo ampie.


Più senso avrebbe dotare i sindaci di maggiori risorse e poteri, nelle grandi città metropolitane così come nei centri più piccoli. Poteri che permetterebbero ai sindaci però solo rendere più restrittiva la legislazione nazionale, non certo di renderla più blanda. E assumendosi di fronte ai propri elettori oneri e onori di queste scelte a tutela della salute pubblica. In altri termini, se il sindaco di Roma ritenesse la città troppo esposta al rischio di diffusione di contagio, dovrebbe poter aumentare le ore di coprifuoco. O poter chiudere attività commerciali, attività sportive e scuole. E proprio le scuole dimostrano come questo federalismo tutto sbagliato stia fallendo non solo a livello politico ma anche a livello burocratico. Se ne è accorto chi ha avuto a che fare con un caso di positività in famiglia o tra i compagni di classe. Ogni agenzia territoriale di tutela della salute sembra avere un approccio diverso; addirittura, approcci diversi si sperimentano all’interno della stessa agenzia, a seconda dell’operatore che si prende in carico il caso specifico. È evidente che manca una regia a livello nazionale e che in questi frangenti non sono ammissibili regole diverse; altrimenti sarebbe (e di fatto è) il caos. La popolazione percepirebbe che ci sono cittadini e aziende di serie A e altri di serie B.

Del resto, se ci pensiamo bene, anche per evitare queste discriminazioni in primavera il lockdown è stato imposto su tutto il territorio nazionale, pur in presenza di enormi differenze territoriali, molto più marcate di quelle odierne. Qualcuno avrebbe mai sopportato che alcuni territori fossero esclusi dall’obbligo di leva militare, quando ancora in vigore? Anche oggi il Paese è in guerra. Una guerra che va vinta con le armi e la strategia giuste. E con uno spirito di corpo, di appartenenza e di fratellanza che non ammette discriminazioni.

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