La proposta/ Un comitato di tecnici per salvare l’ambiente

Lunedì 3 Maggio 2021 di Alberto Clò e Romano Prodi

Dacché è iniziato questo tempo orribile non vi è nulla che ci sia consentito fare che non sia riconducibile alle valutazioni e proposte del Comitato Tecnico Scientifico del Ministero della Sanità. Anche se ogni decisione finale non può che spettare alla politica, al Governo, al Parlamento. Un riconoscimento, potremmo dire una riscoperta, del valore della conoscenza, del sapere, della scienza – pur se inevitabilmente talora divisa al suo interno – nel valutare l’andamento dei dati del contagio e nel proporre le modalità per ridurne i rischi. 
A ben vedere vi sono altri ambiti decisionali che presentano non dissimili caratteri di urgenza, di straordinarietà, di pericolosità ove la voce della scienza dovrebbe svolgere un ruolo preminente.

Ci riferiamo alla “tutela dell’ambiente”, che rientra nella competenza esclusiva dello Stato dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001. Tutela che ha oggi nella lotta ai cambiamenti climatici l’aspetto di sua maggior criticità e urgenza: di per sé e nel momento in cui si stanno decidendo le scelte del nostro Paese per farvi fronte nei decenni a venire. 

Scelte che sono state incardinate nei criteri generali, più che in specifici progetti, nella nuova versione del Recovery and Resilience Plan (Pnrr, di seguito Piano) presentato dal Governo al Parlamento il 25 aprile. Delle sei Missioni cui è finalizzato, la seconda è rivolta alla “Rivoluzione verde e Transizione ecologica” cui è destinato il 37% (57 miliardi euro) delle risorse messe a nostra disposizione dall’Unione Europea. Si dà in tal modo seguito all’European Green Deal proposto dalla Commissione nel dicembre 2019 e finalizzato a rendere l’Europa il primo continente ad azzerare le emissioni nette di gas serra entro metà secolo, riducendole del 55% entro il 2030.

Rivoluzione e Transizione che dovrebbe ridurre le nostre emissioni all’interno, aspetto dirimente, di una coordinata azione internazionale non solo europea, giacché quel che conta non è la riduzione delle emissioni locali ma quelle globali visto che, come il virus, esse non conoscono confini nazionali. 

In assenza di un comune impegno concreto da parte dei maggiori Stati emettitori (Cina 28%, Stati Uniti 15%, India 7%) gli sforzi per comprimere le nostre emissioni (1%) sarebbero infatti del tutto insignificanti. Se saremo, infatti, in grado di ridurle del 55% entro il 2030, come richiesto dall’Unione Europea, contribuiremmo a ridurre quelle globali previste a quella data di appena lo 0,005%. Meglio di niente, ma ad un costo molto molto elevato, che non potrebbe essere sopportato da un Paese o una regione che agissero in solitario.

Per riuscirvi – a dar conto della complessità e straordinarietà della sfida – dovremmo ridisegnare, la parola giusta è rivoluzionare, il futuro energetico, economico, industriale, geopolitico, sociale del nostro Paese: dai beni da produrre alle modalità con cui farlo, ai materiali che usiamo, ai modi con cui ci spostiamo, ai cibi che mettiamo in tavola, ai modi con cui ci riscaldiamo o rinfreschiamo. 

In sostanza: ne sarà interessato ogni aspetto del nostro vivere quotidiano. Scelte che dovrebbero, si legge nel Piano, disegnare un nuovo “modello di sviluppo” del nostro Paese, condizionando il presente e le future generazioni, ai cui interessi rimanda lo stesso concetto di sostenibilità. 

Si tratta di scelte che sollevano molti problemi e altrettanti interrogativi. Il primo è il seguente: chi indicherà alla politica le soluzioni di breve-medio-termine e le innovazioni tecnologiche di lungo termine che sono in grado di massimizzare la riduzione delle emissioni minimizzandone il costo? Riducendo, per quanto possibile, i costi non recuperabili che deriveranno alle imprese da un’anticipata chiusura dei loro impianti. Come verranno selezionate le numerose proposte avanzate all’amministrazione centrale da una gran moltitudine di soggetti – imprese, enti e comunità locali, organismi di ricerca, movimenti ambientalisti, associazioni di categoria, etc.? 

Chi, ad esempio, dovrà trovare un punto di sintesi tecnico ed economico sulla tipologia di idrogeno (verde o blu) da realizzare e in quale quantità? Ovvero se investire o meno sulla tecnologia della carbon capture realizzabile dalle nostre imprese così da ridurre la dipendenza dall’estero per le altre tecnologie rinnovabili? Perché, non si dimentichi, il Piano è anche atto di politica estera con profonde implicazioni geopolitiche, perché destinato a modificare le nostre relazioni economiche internazionali; a impattare sulla sicurezza energetica e quindi sul nostro grado di sovranità nazionale.

Chi, in conclusione, indicherà le scelte prioritarie cui allocare le risorse europee guardando agli interessi dei settori che ne trarranno vantaggio e di quelli che ne saranno danneggiati, ad iniziare dall’industria automotive che prima della crisi sanitaria occupava nel nostro Paese circa 300 mila addetti e fatturava oltre 100 miliardi di euro tra attività dirette e indirette? Un’accelerazione non attentamente ponderata verso la mobilità elettrica che non tenesse conto dei reali effetti sulla riduzione delle emissioni clima-alteranti derivanti dalle diverse tecnologie – valutate nel loro intero ciclo di vita e non solo allo scarico – rischierebbe di far precipitare la crisi che s’è abbattuta con la pandemia su questa industria. 

E, d’altra parte, la selezione del “che fare” non può limitarsi agli esiti che ne deriverebbero sulla “transizione ecologica”, ma dovrebbe tenere conto contestualmente dell’effettivo impatto che avrebbe sulla crescita economica, sulla produzione industriale, sull’occupazione. Opzioni che, se si traducessero in addizionali importazioni, non dovrebbero essere preferite ad altre di origine interna, a parità di impatti climatici. 

Non basta, come sta avvenendo, coprirsi dietro le proiezioni contenute nel Piano Nazionale Integrato Energia Clima (Pniec) – che dovrà per altro essere rivisto per tener conto dei più ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dall’Unione e degli stessi effetti che il Pnrr si auspica possa avere sulla crescita economica – per sostenere la validità di una scelta o dell’altra, se non altro perché quel documento programmatico indica gli obiettivi da conseguire più che il modo con cui farlo. Il che dovrebbe avvenire, in sistemi di mercato, nel sostanziale rispetto del principio della neutralità tecnologica, inteso, secondo il dettato comunitario, come garanzia di un level playing field tra le diverse tecnologie. 

Vi è da dubitare che a dar risposta all’insieme di questi interrogativi possano essere le pur capaci strutture ministeriali data la molteplicità e diversità degli attori, l’enorme complessità delle scelte da adottare, la diversità delle ottiche da cui esaminarle e ponderarle, i trade-off che esse inevitabilmente sollevano sul piano economico e sociale. Nella versione definitiva del Piano, dimensione tecnica e dimensione politica dovranno necessariamente raccordarsi nella selezione dei singoli progetti in cui dovrà tradursi la sommaria allocazione delle risorse indicata nell’attuale versione. 

Alla luce di tutto ciò, potrebbe ritenersi opportuno che le strutture ministeriali e i decisori politici, così come efficacemente sperimentato nella lotta alla pandemia, siano affiancati da un organismo consultivo – un Comitato Tecnico Scientifico sulla Transizione Ecologica – effettivamente indipendente costituito da rappresentati degli organismi scientifici nazionali (Enea, Cnr, Rse), da conclamati esperti delle diverse discipline in gioco, proposti magari dall’Accademia dei Lincei o dalla Conferenza dei Rettori, da esponenti di organismi internazionali particolarmente edotti sulle dinamiche tecnologiche, come l’Agenzia di Parigi. 
Un Comitato in grado di individuare punti di sintesi tra problematiche talora divergenti d’ordine economico, energetico, ambientale, sociale. Aspetto quest’ultimo di cui vi è scarsa consapevolezza, non potendosi pensare che il costo finale delle scelte continui a gravare, come avvenuto sinora, principalmente su famiglie e piccole imprese già penalizzate da un costo dell’energia superiore a quello degli altri Paesi europei, con una preoccupante crescita del fenomeno della “povertà energetica” di cittadini non più in grado di soddisfare essenziali esigenze. 

Data anche l’urgenza dei tempi, questo Comitato dovrebbe fornire un parere consultivo all’organismo tecnico, o “cabina di regia” che dir si voglia, che le linee guida dell’Unione Europea richiedono obbligatoriamente agli Stati Membri per la stesura e implementazione dei Piani nazionali, organismo ancora non identificato nel nostro Pnrr. Pareri riguardanti un gran numero di complesse questioni tra le quali vale evidenziare: selezione dei progetti che si reputano in grado di garantire il massimo di riduzione delle emissioni al minor costo, tenuto conto delle potenzialità della nostra industria; certificazione della loro eleggibilità come effettivamente verdi, alla luce della Tassonomia europea; monitoraggio dell’implementazione dei progetti nel rispetto dei tempi prestabiliti; tempestivi suggerimenti su eventuali correzioni di rotta che si rivelassero necessarie o opportune. Dando conto del tutto all’opinione pubblica in modo esaustivo e trasparente: condizione imprescindibile per ottenerne il più elevato consenso.

Il Comitato Tecnico Scientifico sulla Transizione Ecologica si porrebbe così come interfaccia con similari organismi a livello comunitario o degli altri Stati membri dell’Unione. Dodici Paesi europei (Danimarca, Francia, Germania, Finlandia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Gran Bretagna, Svizzera, Spagna, Portogallo, Slovacchia) li hanno già costituiti o sono in procinto di farlo. Sarebbe massimamente opportuno che anche il nostro Paese se ne dotasse, partendo dalle altrui esperienze. 

A farlo è stato il 21 aprile scorso anche la Commissione Europea con la costituzione dell’European Scientific Advisory Board on Climate Change, composto da 15 membri, incaricato di fornire alla Commissione di Bruxelles consigli indipendenti di carattere scientifico. La decisione è stata presa nell’ambito del “Provisional agreement on the European Climate Law” raggiunto da Consiglio e Parlamento europei, che ha sancito due obiettivi: un’Unione climaticamente neutra entro il 2050 e la riduzione delle emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030. Il nuovo Advisory Board fornirà consulenza scientifica sulle misure adottate dalla Ue, sugli obiettivi climatici, sull’evoluzione delle emissioni di gas-serra verificandone la coerenza con la legge sul cima e con l’Accordo di Parigi. 

Che anche le nostre massime istituzioni adottino questa best practice sarebbe di grande ausilio per rafforzare la governance del Piano relativamente alla transizione ecologica e favorire il buon esito delle sue scelte.
 

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