Coalizioni divise/ I leader politici e il prezzo da pagare per la guerra

Giovedì 7 Aprile 2022 di Alessandro Campi

Di accordi e trattative di pace, dei quali s’era fatta garante la Turchia di Erdogan, già non si parla più.

Gli orrori contro la popolazione civile emersi nella città di Bucha, peraltro tragicamente caratteristici delle guerre contemporanee, hanno reso lo scontro tra Russia e Ucraina incomponibile su tempi brevi. La guerra, nella volontà degli attori, nella percezione degli osservatori, rischia di essere lunga. Quanto ai suoi effetti, oltre i morti e le distruzioni materiali sinché si continuerà a combattere, oltre i milioni di profughi che per il momento si è riusciti ad assorbire senza traumi, potrebbero rivelarsi particolarmente devastanti anche una volta che essa sarà finita. La pace arriverà, prima o poi, ma è sul dopoguerra e sulle sue possibili convulsioni che bisogna cominciare a interrogarsi. Per l’economia dell’Italia e degli altri Paesi europei già si vedono i contraccolpi possibili: rincaro dei prezzi al consumo, scarsità di materie prime, problemi di approvvigionamento energetico, contrazione delle attività produttive, perdita di posti di lavoro. Si pensava di uscire dalla pandemia, nella quale siamo ancora immersi sino al collo, attraverso un grandioso piano d’investimenti che per l’Europa avrebbe significato l’inizio di un nuovo ciclo di sviluppo nel segno della sostenibilità e della tutela ambientale. Rischiamo invece di dovercela vedere con vecchi fantasmi: recessione e inflazione, povertà e disoccupazione. Tutti i piani sul futuro fatti negli ultimi due anni vanno già rivisti e ripensati. Già mantenere lo status quo potrebbe essere un buon risultato.


Ma è plausibile che anche la sfera politica esca fortemente traumatizzata e sconvolta da questa guerra. Per limitarci all’Italia, si sono create polarizzazione ideologiche, linee politiche di scontro e divisioni emotive, tra le forze politiche e nell’opinione pubblica, ben più profonde di quanto appaia alla superficie o di quanto indichi la compattezza con cui s’è mosso, di concerto con gli alleati, il governo nazionale.
E’ tipico delle guerre che mettono in campo, come in questo caso, grandi attori statali e opposti modelli sociali e culturali, che toccano in profondità l’immaginario collettivo e il vissuto concreto delle persone, scomporre le società dall’interno, disarticolare i fronti politici, favorendo così nuove aggregazioni, nuovi antagonismi e l’emergere potenziale di nuove forze.


Che ne sarà dunque del centrodestra e del centrosinistra come li abbiamo conosciuti sinora? Il Partito democratico tornerà a incrociare il proprio destino con il M5S dimenticando i contrasti sul riarmo e sugli aiuti militari inviati all’Ucraina? Il fronte dei moderati si presenterà compatto ai propri elettori sorvolando sul fatto che in questa guerra, tra gli esponenti dei diversi partiti di destra, c’è chi sta apertamente dalla parte dell’Ucraina e chi tifa nemmeno troppo nascostamente per la Russia? 
In occasione di questo conflitto, la sinistra italiana si è spaccata come non mai, anche all’interno delle sue diverse componenti organizzate, tra neutralisti de facto russofili ed euro-atlantisti. Lo stesso può dirsi del fronte pacifista-progressista: gli integralisti, d’ispirazione laica o religiosa, non vogliono sentir parlare di armi e soldati, vogliono la pace ad ogni costo anche se non sanno come ottenerla; i crociati dei diritti umani hanno invece scelto il male per loro minore della guerra giusta e del sostegno armato agli aggrediti ucraini per ragioni umanitarie. Difficile mediare tra posizioni tanto opposte.


Ma lo stesso è accaduto nell’altro campo, diviso sempre più tra occidentalisti con l’elmetto e sostenitori di un’immagine della Russia che è sì un’autocrazia, ma anche, per molti, un baluardo della cristianità e dei valori tradizionali, tra difensori seduti sul divano della libertà dei popoli e fautori della pace che si trincerano dietro un realismo da operetta. Diviso altresì tra ex-putinisti pentiti e redenti (diventati per ciò i più fanatici sostenitori della “resistenza” armata ucraina) e putinisti impenitenti ma oggi giocoforza costretti a una qualche prudenza verbale. 
Come potranno ricomporsi al loro interno questi diversi mondi o blocchi in vista del prossimo appuntamento elettorale? Gli elettorati di queste diverse forze si riuniranno per convenienza o certe fratture odierne – etiche, culturali, politiche, di posizionamento geopolitico – sono destinate a pesare anche nel prossimo futuro?
E’ un problema di partiti – che l’altro giorno Mario Draghi, intervenendo al Copasir, ha invitato perentoriamente a mostrarsi trasparenti nei loro rapporti (quelli futuri, ma quelli passati?) con Russia e Cina – ma soprattutto di singoli leader.


Sono molti – Di Maio, Meloni, Grillo, Conte, Renzi – quelli che negli anni hanno intrattenuto rapporti eccessivamente simpatetici con questo o quell’autocrate, dunque non solo con Putin, sottovalutando le ricadute politiche e d’immagine dei loro comportamenti. Il caso di scuola, il più eclatante, è tuttavia quello di Salvini.
Il suo filo-russismo è stato negli anni manifesto, esibito e rivendicato, nemmeno giustificato da una qualche Realpolitik come nel caso di Berlusconi e della sua diplomazia tutta abbracci, sorrisi e pacche sulle spalle. Il problema è che esso continua in forme subdole e sotterranee, come mostra da ultimo il fatto che, in nome del dialogo e della volontà di pace, egli si sia opposto, unico tra i capi dei partiti che sostengono il governo in carica, all’espulsione dal nostro Paese di trenta funzionari dell’Ambasciata russa. Arrivando, con questo suo atteggiamento, a sollevare interrogativi inquietanti: dove finisce l’adesione ideologica alla “democrazia sovrana” putinista (e già così sarebbe grave, pur essendo una scelta legittima) e dove comincia la costrizione politica indotta dall’aver contratto con quel mondo chissà quali obbligazioni? Infatuazione dottrinaria o patto col diavolo?


Viene dunque da chiedersi di quale alleanza o coalizione Salvini aspira a farsi leader. E quali ambizioni di governo possa vantare chi – a differenza della Meloni – non ha colto l’occasione di quel che sta accadendo per dare un colpo di spugna sulle sue compromettenti amicizie internazionali. L’Europa che oggi avversa Putin con tutte le forze, divenuta co-belligerante dell’Ucraina, potrà ammettere nel suo club esclusivo un nostalgico dell’uomo forte di Mosca? 
E’ un problema che forse anche all’interno della Lega ci si sta ponendo, tra ministri e governatori dell’ala pragmatica. Un leader, anche il migliore, non è per sempre. Un leader che ha sbagliato così tanto (e che si ostina a farlo) quanto può esserlo ancora? I sondaggi, in continuo calo per la Lega, sono eloquenti. Ma il vero problema, oltre i numeri, è come si possa recuperare una qualche credibilità politico-progettuale, interna e internazionale, avendo incrociato il proprio cammino con quello che è diventato il “nemico pubblico” del mondo libero.


Per il centrodestra è un bel problema in vista del voto. Per il centrosinistra è un facile argomento da propaganda elettorale. Ma sempre che l’uno e l’altro continuino ad esistere e che qualcosa d’altro, nuove alleanze, nuovi partiti, non ne prenda il posto. Potrebbero essere a loro volta tra le vittime causate dalla guerra: le uniche per le quali, c’è da scommettere, nessuno verserebbe una lacrima.

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