Una sfida da vincere nel nome degli elettori

Mercoledì 26 Ottobre 2022 di Massimo Martinelli
Massimo Martinelli

Sarebbe un errore considerare le parole che Giorgia Meloni ha pronunciato ieri nell’aula di Montecitorio come una identitaria rappresentazione della sua capacità oratoria.

Un errore e una sottovalutazione. Un errore perché quel «non ci arrenderemo, non indietreggeremo e non tradiremo le speranze che in noi sono state riposte» non era - come alcuni deputati dell’opposizione hanno sostenuto - solo un richiamo alla retorica della destra. E sarebbe una sottovalutazione perché è altamente probabile che davvero questo premier non si arrenderà e non indietreggerà davanti agli ostacoli. Siano essi posti dalle opposizioni piuttosto che da frange ribelli della maggioranza.

 
Nel suo discorso Giorgia Meloni ha toccato tutti i punti più importanti del programma di governo, ben sintetizzati nelle pagine interne di questo giornale e nel commento di Alessandro Campi in un articolo qui accanto. Settanta minuti di esposizione ad ampio spettro durante i quali ha incassato anche applausi dai banchi del Pd e del M5S. Soprattutto, e questo non è usuale, non è mai stata contestata apertamente. La percezione diffusa è stata che le cose dette avessero soprattutto la connotazione del buon senso. Il merito come ascensore sociale, l’immigrazione dai Paesi africani regolamentata dai decreti flussi, il Reddito solo a chi ne ha realmente bisogno, una riforma delle pensioni sostenibile per l’Inps e al tempo stesso capace di consentire flessibilità in uscita e altro ancora. Il tutto declinato nella chiave della difesa dell’italianità, soprattutto delle imprese, dei prodotti manifatturieri, del settore alimentare e agricolo.

Qualcuno, da sinistra, in maniera un po’ avventata, ha liquidato quel pathos come «roba di destra». E ha confermato quanto resistano ancora quel pregiudizio e quella ostinata tendenza alla persecuzione da parte di una certa classe politica progressista che ha caratterizzato l’ascesa politica di Giorgia Meloni. Un pregiudizio spazzato via dal grande consenso elettorale del 25 settembre; raccolto anche, e soprattutto, nelle case degli italiani medi, due stanze e cucina, attenti ai fondamentali della loro esistenza: un lavoro che consenta di arrivare a fine mese, una pensione quando si diventa anziani, una scuola statale che permetta a figli e nipoti di prendere l’ascensore sociale anche dal seminterrato. 


Un’avversione e un’animosità che lei non ha mai ricambiato, fedele a quella visione della storia che ieri le ha fatto dire: «Nell’abisso non si pareggiano mai i conti, si precipita e basta», riferendosi agli orrori e ai crimini di tutti i totalitarismi del ‘900. Piuttosto, dimostrando una visione della democrazia e delle istituzioni che deve aver lasciato sorprese anche le opposizioni. Che lei rispetta: «Difficilmente riuscirò a non provare un moto di simpatia anche per coloro che scenderanno in piazza contro le politiche del nostro governo», ha detto parlando idealmente ai giovani. E ricordando come lei stessa 30 anni fa, appena quindicenne, mentre l’Italia era scossa da Tangentopoli e dalla stagione dei delitti Falcone e Borsellino, scendeva in piazza a manifestare per i propri ideali di libertà.

 
È questo calcolo con la storia recente che molti dei politici all’opposizione non riescono ancora a fare quando accusano lei e il suo partito di postfascismo e di autoritarismo. Giorgia Meloni è figlia di una generazione diversa, di quella destra «democratica», come lei ha rivendicato ieri, lontana anni luce dalle logiche della generazione precedente. Non ha conosciuto (se non per averne sentito dai racconti dei protagonisti), la violenza degli anni Settanta e Ottanta, gli opposti estremismi, le P38 e le Beta36, la paura di trovarsi di notte in una via di Roma (o di Milano) e di incrociare altri giovani pronti a menare le mani se indossavi un paio di stivali camperos o avevi una borsa di Tolfa a tracolla. Quel «morire sotto i colpi delle chiavi inglesi» che pure lei ha ricordato ieri per stigmatizzare un’epoca passata, non fa parte della sua storia, ma solo della sua dote di conoscenza di quegli anni. E le critiche al suo discorso costruite intorno a questi stereotipi, non fanno che aumentare la sensazione di assenza di argomenti più validi per sostenere una opposizione costruttiva.


Il piano è ambizioso, dicevamo. Tocca lo stato sociale, l’economia, i rapporti con l’Europa e con il mondo. Giorgia Meloni ha promesso il massimo impegno per realizzarlo, sapendo che non avrà una opposizione leale e attenta agli interessi del Paese come quella che ha fatto lei, per venti mesi, al governo Draghi


Sa che la Storia la giudicherà su questo, e sulla base di questo un’altra donna vincente in futuro potrà inserirla o meno in quel Pantheon di pioniere che lei ha citato in apertura del suo discorso. È una scommessa difficile. Che tuttavia lei, e molti milioni di italiani, hanno ritenuto di fare.

Ultimo aggiornamento: 27 Ottobre, 00:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA