I rischi nel conto/La sconfitta del partito della prudenza

Sabato 17 Aprile 2021 di Luca Ricolfi
I rischi nel conto/La sconfitta del partito della prudenza

Discutiamo, discutiamo pure.

Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto in cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”. Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. 


Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno. Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai Paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.
Che cosa hanno fatto Stati come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari Paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei Paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata.


Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. 


Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: «Non avrai altro Dio all’infuori del lockdown» (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa. Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi sei mesi?


La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti. Ma riserve di che cosa? Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena quattro di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che «i dati migliorino», facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.


Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del Paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite Iva che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.


La frattura tra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a due mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.


Perché è successo? E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.


Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.


Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre. Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.


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Ultimo aggiornamento: 23:03 © RIPRODUZIONE RISERVATA