Ddl Zan e dintorni/ Il politicamente corretto che non aiuta i più fragili

Sabato 3 Luglio 2021 di Luca Ricolfi

Sul disegno di legge Zan contro l’omofobia stanno emergendo tre posizioni. La più infantile è quella del segretario del Pd, che pretende di approvare la legge così com’è, quasi fosse un testo perfetto e non migliorabile. Una seconda posizione suggerisce di eliminare o modificare gli articoli più discutibili (1, 4, 5, 7). Una terza posizione punta sulla sostituzione con un altro disegno di legge, come quelli di Zan stesso e Annibali, Scalfarotto-Zan, o Ronzulli-Salvini, tutti testi su cui sarebbe facile coinvolgere anche buona parte dei parlamentari di centro-destra.
Al di là di queste differenze, l’impianto logico comune di tutte le proposte di legge è quello di estendere il campo di applicazione della legge Mancino del 1993, che conteneva «misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa». L’idea è di limitare la libertà di espressione non solo nei casi in cui idee violente e discriminatorie siano basate su motivi «razziali, etnici, nazionali o religiosi», ma anche nei casi in cui siano riconducibili a motivi fondati su «sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità».
In breve: la tutela contro le idee discriminatorie viene assicurata allungando la lista delle categorie protette.

Ebbene, forse è giunto il momento di porci una domanda: non sarà che il difetto stia nel manico?

Detto altrimenti: è ragionevole una strategia che affida la lotta contro la violenza e le discriminazioni alla individuazione di categorie dotate di speciali protezioni?
Secondo me no, per almeno due motivi. Tanto per cominciare la lista delle categorie meritevoli di una speciale protezione è arbitraria e potenzialmente illimitata. Aggiungere alle appartenenze nazionali, etniche, religiose, il fatto di essere donna, gay, lesbica, bisessuale, transessuale, disabile, non esaurisce certo lo spettro delle categorie che, sulla base di qualche visione del mondo più o meno accreditata, potrebbero aspirare a una speciale protezione. Perché i disabili sì e i barboni no? Forse perché vivere sotto i ponti è una scelta, e dunque se ti pestano a sangue è perché «te la sei cercata»?

Pensiamo al bullismo nelle scuole. Gli estensori del ddl Zan credono che il bullismo prenda di mira solo ragazzini o ragazzine Lgbtq+ (la demenziale sigla, degna delle più ottuse burocrazie, che designa le nuove categorie da proteggere)? Non sanno che, nelle scuole, ad essere presi di mira sono da sempre anche i grassi, i secchioni, i timidi, e ora grazie a internet anche quegli infelici che hanno pochi like e pochi follower? 

Ma c’è anche un’altra ragione per cui la strada di moltiplicare le categorie degne di una speciale protezione è pericolosa. Ed è che essa innesca, innanzitutto nell’opinione pubblica, una grottesca “competizione vittimaria”, nella quale non conta nulla il fatto che la vittima sia semplicemente una persona, un essere umano che riceve un’offesa, e diventano cruciali le categorie di appartenenza degli aggressori e delle vittime.

Vogliamo fare degli esempi? Ve ne sono due recentissimi. La stampa progressista, sempre molto circospetta nel criticare l’islam, dopo avere snobbato per giorni la (quasi certa) uccisione di Saman da parte dei suoi familiari pakistani, è stata costretta a tornare sui propri passi solo allorché alcune femministe, a partire da Ritanna Armeni, sono insorte facendo notare che la vittima era una donna. La carta “essere donna” è stata giocata contro la carta “essere immigrati” o “essere islamici”, come se uccidere una persona perché non accetta un matrimonio imposto dalla famiglia non fosse un comportamento esecrabile in sé, a prescindere dalle categorie di appartenenza dei soggetti coinvolti.

Secondo esempio: le polemiche (con o senza inginocchiamento dei calciatori) sulla solidarietà a George Floyd, il nero soffocato e ucciso da un poliziotto americano. Gli ostili al movimento Blm (black lives matter: le vite dei neri hanno importanza) non si sono accontentati di ricordare che Floyd aveva parecchi precedenti penali, ed era stato condannato per una rapina a mano armata, ma hanno ritenuto di dover sottolineare che la vittima era una donna, qualche volta aggiungendo persino il particolare (falso) che fosse incinta. Di nuovo: la carta della categoria protetta “donne” contro la carta della categoria protetta “neri”, come se il male commesso nei due casi (l’uccisone e la rapina a mano armata) avesse bisogno di una categorizzazione dei protagonisti per essere pienamente riconosciuto nella sua negatività.
Ma c’è anche un altro elemento, nella discussione del ddl Zan, che forse meriterebbe più attenzione, soprattutto in campo progressista. Le parti più discutibili del disegno di legge sono quelle nelle quali la visione del mondo elaborata da una parte del mondo Lgbtq+ (dico “una parte” perché molte femministe contestano il ddl Zan) viene istituzionalizzata e imposta nelle scuole (articolo 7). 

Il nucleo di tale visione del mondo altro non è che una versione, particolarmente estrema e settaria, dei dogmi del politicamente corretto in materia sessuale e di genere. Ebbene, può darsi che il mondo progressista non se ne sia ancora accorto, ma giova ricordare che il politicamente corretto è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità popolare, e che l’adesione acritica dei democratici americani al politicamente corretto è stata, quattro anni fa, una delle determinanti della sconfitta di Hillary Clinton e della vittoria di Donald Trump.
Detto altrimenti: il fondamentalismo con cui il partito di Letta ha abbracciato le ragioni del ddl Zan «così com’è», difficilmente aiuterà il Pd a recuperare consenso fra i ceti popolari. E, temo io, ancora più difficilmente aiuterà la giusta battaglia contro ogni discriminazione. Una battaglia che si vince sul piano culturale, non imponendo a tutti la visione del mondo di una minoranza che si sente depositaria del bene.
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