I doveri della politica/ Mascherine e cene a sei, ma il governo faccia il suo

Venerdì 16 Ottobre 2020 di Alessandro Campi

Il modo migliore per deprimere ancora di più gli italiani, per aumentarne le insicurezze e i patemi d’animo, consisteva nel minacciarli di dover trascorrere le vacanze di Natale chiusi in casa, senza poter vedere parenti e amici.

Detto, fatto.


La voce già circola insistente, suffragata dallo scienziato di turno che proprio non sa rinunciare all’ennesima intervista. È stata smentita a livello di governo, ma esattamente per questo appare paradossalmente credibile. E davvero non si capisce se tutto ciò sia allarmismo coltivato ad arte, incapacità a gestire l’abc della comunicazione nell’era digitale o se invece si tratti dell’unica forma di pedagogia civile adatta a un popolo notoriamente indisciplinato come il nostro: l’obbedienza attraverso la minaccia.


L’alternativa alla paura instillata nel corpo sociale, quella certamente preferibile in un sistema democratico e quella più coerente con la natura di quest’ultimo, sarebbe la persuasione per mezzo della parola: l’unica che possa davvero stimolare il senso del dovere individuale. Ma per percorrere questa strada non servono solo cittadini maturi e raziocinanti (e tutti lo sono o lo diventano quando è in ballo la propria esistenza o salute), ma governanti autorevoli, politici convincenti, di cui ci si possa ragionevolmente fidare soprattutto nei momenti difficili. 

Laddove fidarsi vuole dire affidarsi: lasciare che siano coloro a cui abbiamo dato pubbliche responsabilità – con gli onori che nel caso italiano spesso superano gli oneri – a scegliere per noi o a suggerirci cosa fare per il benessere individuale e di tutti. La rappresentanza politica è a ben vedere un meccanismo d’esonero molto elementare: delego qualcuno ad operare in mia vece per non dovermi occupare di questioni che da solo peraltro non saprei come affrontare e che richiedono mezzi di cui singolarmente non si dispone.


Quello che ci sentiamo dire, ogni giorno che passa, è invece che l’uscita dalla pandemia dipende non dalle scelte dirimenti e tempestive fatte a livello politico, ma solo e soltanto dai nostri comportamenti individuali virtuosi. E che se tutto andrà male la colpa sarà dunque stata la nostra. Il che è anche un po’ vero, visto che non c’è società funzionante senza cittadini coscienziosi e rispettosi delle regole. 


Se non fosse che questi appelli accorati alla responsabilità dei singoli, sempre più ricorrenti, cominciano a suonare sospetti e strumentali: il modo che chi ci governa sembra aver scelto per scaricarsi da obblighi non assolti e da eventuali colpe. Il che sarebbe grave sul piano etico, oltre che sul piano dello stile, visto che un’antica convenzione, nata nel mondo militare ma valida anche in quello civile, vuole che le mancanze e debolezze dei capi non si possono né si debbono scaricare sui gregari e i subordinati. 


Io dunque la mascherina la metto, le mani me le lavo e ieri sera a una cena famigliare eravamo scrupolosamente in sei. Ma tu – intendendo chi guida il governo, chi ne fa parte e chiunque, per ragioni politiche e istituzionali, abbia ruoli diretti nella gestione di quest’emergenza sanitaria: includiamoci dunque anche l’opposizione parlamentare, che anch’essa ha dei doveri – cosa hai fatto e stai facendo, oltre a dirmi come dovrei comportarmi dentro e fuori casa? Posso, possiamo fidarci? Siamo in buone mani?


Si vorrebbe rispondere sì, anche solo per farsi coraggio. Ma si è costretti invece ad ammettere che ciò che più sembra mancare, in questa fase delicatissima, è proprio una qualche forma di direzione politica, riconoscibile come tale, cioè unitaria e coerente, minimamente lungimirante e trasparente, della crisi in corso e delle sue conseguenze reali e potenziali.


Sei-sette mesi fa l’effetto scioccante della pandemia ha potuto giustificare ritardi e inadempienze, cortocircuiti istituzionali, conflitti tra i poteri, come anche silenzi e reticenze, per non parlare degli errori. Per la politica parve normale, in quella prima fase, affidarsi quasi ciecamente alle indicazioni di una comunità scientifica che a sua volta per settimane ha brancolato nel buio, prima di mettere a punto una risposta clinica e farmacologica minimamente efficace.


Ma poi – quando si è capito che l’emergenza si sarebbe protratta nel tempo e dunque non sarebbe più stata tale, bensì una condizione ordinaria e permanente per parecchi mesi e forse anni – doveva toccare alla politica di tornare protagonista: per programmare, organizzare, stabilire priorità e urgenze, reperire e distribuire risorse, coordinare, assegnare compiti e obiettivi. Prevedendo il peggio, come sempre fa la politica quando è accorta, salvo sperare nel meglio.


Si scopre adesso, allorché il peggio sembra arrivato sul serio, che non si è fatto nulla del genere, ovvero che si è fatto assai poco e spesso in modo improvvisato e contraddittorio. Ancora, ad esempio, si cincischia sul Mes – ieri Conte ha operato una “quasi” apertura sul tema che però è stata prontamente rettificata per non ingenerare tensioni nella maggioranza che lo sostiene – nel mentre sempre più drammatico si sta facendo il nostro bisogno di investimenti da destinare, in particolare, al settore sanitario. Tra Stato centrale e Regioni, dopo la pax estiva e la pausa elettorale, è ricominciato il tira e molla sulle competenze e le attribuzioni che non pochi problemi ha già causato nei mesi scorsi. Si è rimesso in movimento un Paese senza considerare – e non ci voleva il genio della lampada – quanto la promiscuità inevitabile sui mezzi di trasporto potesse diventare un vettore di contagio. Si sono bloccati gli sport amatoriali, di questi tempi una salutare valvola di sfogo, per consentire invece quelli professionistici, dove non si fanno che registrare sempre nuovi infettati a dispetto della rigidità dei controlli. Le scuole d’ogni ordine e grado sono state aperte, come giusto e necessario per mandare un segnale di normalizzazione, salvo lasciare le famiglie spesso sole nella gestione non dei contagi reali, ma della semplice paura di un’infezione.


Le file, interminabili ed estenuanti, per i tamponi le abbiamo viste tutti – e ne abbiamo concluso che sono umilianti e non degne di un Paese minimamente sviluppato e organizzato. Segno, anche su questo versante, di un ritardo imperdonabile nella gestione della pandemia, dopo mesi passati a discettare sulle carenze della nostra medicina territoriale e sulla necessità di istituire presidi sanitari che impedissero esattamente quel che sta accadendo. 
Sconfortano poi le notizie relative al fatto che nelle strutture di riposo gli anziani sono tornati a morire, come se niente avessimo imparato, in termini di protocolli e controlli, dalle stragi della scorsa primavera. Che dire infine della pletora di organismi tecnici, di strutture di consulenza, di poteri commissariali che sono stati messi in piedi nei mesi scorsi con l’idea di gestire più efficacemente la crisi sanitaria e i suoi effetti sociali: servivano alla politica per realizzare con più efficacia le proprie direttive o per avere un parafulmine sul quale scaricare responsabilità ed eventuali inadempienze?


Viene quasi il sospetto che i vertici della politica italiana, presi più dalle lotte intestine nei diversi partiti e dalla caccia alle poltrone, si siano abbandonati riguardo la pandemia ad un ottimismo sconfinante ahimé nella leggerezza: abbiamo discettato per tempo sulla seconda ondata, ma abbiamo anche sperato – vuoi lo Stellone italico, vuoi la Provvidenza divina – che essa alla fine, chissà perché, ci avrebbe risparmiato. 


In questo caso non è solo un problema di impreparazione o imperizia personale; è il risultato di una mentalità fatalista che inevitabilmente favorisce la dilazione e l’immobilismo e che probabilmente fa parte del nostro carattere collettivo.


Qualcuno, in questi frangenti, segretamente si consola alla notizia che nel mondo a noi vicino le cose, dal punto di vista sanitario, vadano molto peggio, ma si è già visto nel recente passato quanto facilmente cambino gli scenari. Vogliamo fare come hanno fatto gli altri Paesi europei all’inizio della pandemia, quando hanno pensato che la situazione fosse fuori controllo solo in Italia? Debbono per forza avverarsi gli scenari più cupi prima di decidersi ad agire andando oltre le esortazioni, le cavillosità pseudo-giuridiche e le “forti raccomandazioni” rivolte al prossimo?


Ad una classe politica seria non compete fare lezioni di educazione civica: spetta trovare soluzioni concrete ai problemi reali, tocca scegliere una strada e percorrerla, laddove noi che la percorriamo dobbiamo solo sperare che non conduca al baratro bensì alla salvezza.
La conclusione è che noi, cittadini spesso giudicati troppo impazienti, la nostra parte la faremo sino in fondo, avendola già fatta con più disciplina e più pazienza di quante si potessero immaginare. Ma voi, per favore, fate finalmente la vostra, assumetevi le responsabilità che vi competono senza nascondervi dietro il parere dei troppi esperti che ci sono in giro. E quando la pandemia sarà finita faremo, va da sé, democraticamente i conti. 
 

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