Come in un dramma pirandelliano, man mano che i giorni passano, la maschera cede il posto alla realtà e il “caso Donzelli” si trasfigura sempre più nel “caso Pd”.
Sgombriamo però il campo da un equivoco: è assolutamente risibile, e figlio di ottusa ostilità, ogni accostamento del Pd alla mafia o al terrorismo. Troppe sono le prove “a contrario” che la storia e la tradizione di quel partito possono esibire. Eppure, proprio tenendo a mente questa circostanza, la domanda si fa molto semplice: che cosa pensava di ottenere, in quel carcere, una delegazione così rappresentativa di dirigenti dem? Non è sufficiente rispondere che ci si volesse render conto delle condizioni umane del detenuto.
Se il Pd avesse sposato da sempre la metodologia e la cultura del Partito radicale non si sarebbe posto e non si porrebbe alcun problema. Pannella, Bonino e i loro eredi hanno sempre sostenuto il primato dei “diritti umani” rispetto a qualsivoglia ideologia politica. Ma il Pd non è mai stato un tale “partito umanitario”. E, prima ancora, certamente non lo era il Pci che ha sempre fatto grande attenzione a evitare ogni tipo di contiguità, sia pure marginale o episodica, tra la propria cultura e qualsivoglia ideologia eversiva.
Forti di questa storia, è mai possibile allora che i dirigenti dem non abbiano pensato, neanche lontanamente, che “visitando” Alfredo Cospito rischiavano di avallare la sua presunta condizione di “vittima dello Stato”? Mentre era ed è del tutto evidente che egli è solamente vittima di se stesso e dei suoi disegni politici. Per avere notizie sulle condizioni dell’anarchico non c’era, peraltro, alcun bisogno di recarsi a Sassari.
Viceversa, non ci voleva Machiavelli per capire che la “visita ufficiale” di quattro importanti dirigenti dem avrebbe assunto un carattere pienamente politico. Se poi si aggiunge che, una volta entrati nel carcere, pare esser risultato inevitabile scambiare quattro chiacchiere anche con i mafiosi del reparto di Cospito (tra i quali Pietro Rampulla indicato come l’artificiere della strage di Capaci) il patatrac diventa completo. Tanto da rendere infantile ogni minimizzazione poi messa in scena dai protagonisti.
Ripetiamolo: è del tutto surreale imputare al Pd qualsiasi tipo di collusione con mafia e terrorismo. Ma, dall’insieme delle circostanze ormai chiarite, si può certamente mettere agli atti il peccato di una grave ingenuità politica. E’ inspiegabile, infatti, come Serracchiani e compagni (tra cui un ex ministro della Giustizia) non si siano resi conto di quanto quella visita fosse inopportuna. Ci poteva essere una sola ragione politica a renderla plausibile: la circostanza che il Pd avesse voluto proporre una revisione delle norme sul 41 bis. In tal caso, l’accoglimento della richiesta di Cospito, per quanto certamente grave, avrebbe reso tutto più trasparente e coerente. Ma, dato che tale ipotesi viene da quel partito negata in modo inequivocabile rimane (ancor più rafforzato) il peccato d’ingenuità.
Tanto più perché commesso in un contesto caratterizzato dalla mobilitazione di massa degli anarchici, che minacciano ulteriori violenze. Controprova: non c’è dubbio che il Pd non abbia tratto alcun vantaggio politico da questa vicenda. Mentre la visita in carcere dei suoi dirigenti è stata “usata” da Cospito e compagni come un successo, fingendo di aver allargato il fronte del loro consenso. Un tempo, nella tradizione della sinistra, era in auge la categoria degli “utili idioti”. Forse, in questo caso, andrebbe rispolverata. Niente di irreparabile, per carità. L’ingenuità presenta perfino dei tratti di simpatia. Non sarebbe male, però, avere il coraggio di riconoscere l’errore, soprattutto in giorni difficili come questi nei quali la politica dovrebbe avere il sopravvento sulla propaganda.