Cambia l’abuso d’ufficio/ Togliere gli alibi alla paralisi burocratica

Mercoledì 1 Luglio 2020 di ​Carlo Nordio
Non conosciamo il testo del “decreto semplificazioni” che il Governo presenterà a giorni per incentivare la ripresa. E poiché anche le virgole possono alterare o capovolgere il significato di una norma, sarà bene attenderne la stesura definitiva. Nondimeno, a giudicare dalle intenzioni, la via intrapresa sembra esser quella giusta: ridar fiato all’attività economica eliminando le ingarbugliate matasse che ne vincolano la dinamica. Il decreto squaderna un vasto programma: dagli appalti all’edilizia, alla cittadinanza digitale alla green economy, e quindi è impossibile commentarlo tutto. Ci limiteremo all’obiettivo secondo noi più importante, e anche più facile da realizzare: la responsabilità dei pubblici amministratori. Essa infatti è la causa principale della paralisi amministrativa, e quindi degli ostacoli che l’iniziativa privata trova nel suo dispiegarsi. Ma per risolvere un problema occorre prima individuarne la cause, che sono essenzialmente due. 

1. La comune vulgata - spesso fondata su una inavvedutezza critica - riversa tutte le colpe sulla burocrazia, definita autoreferenziale, conservatrice e persino dedita al sabotaggio di ogni riforma. Questo significa confondere la causa con l’effetto. E’ vero che la burocrazia, come tutte le corporazioni, tende a conservare le sue prerogative, ma la colpa non è tutta sua: è di chi le ha conferito questi strumenti che la rendono onnipotente.

E questi strumenti sono le leggi: più di duecentomila, forse il doppio o il triplo se consideriamo anche le disposizioni attuative, con dei commi che arrivano al “septesdecies”. Esse si sono sedimentate e sovrapposte nel tempo, come le rovine di Troia, perché il delirio proliferativo del legislatore si è coniugato con la sua renitenza a sopprimere quelle esistenti, come se ogni abrogazione costituisse una resa. Cosicché non sono solo inconoscibili, ma contraddittorie. Seguendone una, è quasi inevitabile violarne un’altra, esponendo così chi firma un provvedimento alla responsabilità penale o a quella contabile. 

2. Queste leggi partono dal presupposto che i nostri amministratori siano dei malandrini. Sembrano fatte apposta per scovare, nelle piega di ogni atto, il minimo cavillo per impallinarne l’autore. Non conosciamo la ragione di questa cultura del sospetto, che peraltro fiorisce anche in altre discipline. Sta di fatto che ogni sindaco, assessore, o dirigente pubblico, quando cerca di interpretare una norma si sente impaurito, e quando la applica si vede già incatenato. Per “sburocratizzare” il Paese, è dunque vano prendersela con la burocrazia. Dobbiamo eliminare il novanta per cento delle leggi che abbiamo, e render chiare quelle che restano. Lo farà questo decreto? Vedremo.

Ed ora veniamo al punto specifico: la responsabilità degli amministratori. L’abuso di ufficio è un reato evanescente, di cui, da sempre, si lamenta la genericità. Nel diritto penale, i principi di tassatività e determinatezza sono i primi due comandamenti perché una persona deve sapere quale sia la condotta illecita per la quale rischia la galera. Per la maggior parte dei reati questi princìpi sono rispettati. Per l’abuso di ufficio no. E’ vero che la Corte Costituzionale ha detto il contrario. Ma è altrettanto vero che l’interpretazione datane dalle procure è molto più elastica ed estensiva, con la conseguenza che molti errori degli amministratori sono considerati dei reati. In realtà le statistiche rivelano che a fronte di cento indagini, poche si concludono con un processo, pochissime con una condanna, e quasi nessuna con l’esecuzione della pena. Il legislatore lo sa, e ha provato più volte a “specificare” qual sia la condotta illecita, aggiungendo aggettivi e avverbi che hanno solo complicato la già difficile opera dell’interprete. Niente da fare. Le indagini si moltiplicano, e con esse i timori e le inerzie degli amministratori. L’unica soluzione è l’abolizione di questo reato, punendo il funzionario quando si vende, non quando sbaglia. Ma leggendo le anticipazioni del testo, temiamo che si continuerà a lavorare sugli aggettivi e sugli avverbi. E saremo come prima. 

Lo stesso per la responsabilità contabile. La Corte dei Conti vigila sul cosiddetto danno erariale cagionato dal dipendente pubblico. Il quale spesso, con lo stipendio che percepisce, deve pignorarsi la liquidazione non tanto per risarcire questo danno, di cui spesso non è responsabile, ma per pagarsi l’avvocato per gli interminabili processi. E quindi, nel dubbio, preferisce soprassedere. Ora, la filosofia innovativa che pare emergere dal decreto, sembrerebbe quella di perdonare gli errori, ma di punire l’inerzia. Cosicchè per il funzionario pubblico sarebbe più rischioso “non fare” che “fare male”. E’ un’idea un po’ bizzarra, che potrebbe funzionare solo se la nostra burocrazia disponesse di leggi chiare e distinte, e fosse assistita da immunità reali ed efficacemente garantite. E poiché le prime sono, come dicevamo, numerose ed oscure, e le seconda sono lasciate all’iniziativa dei singoli pubblici ministeri, anche qui tutto rischia di restare com’è. 

Concludo con una nota ottimistica. L’emergenza sanitaria (e la ricostruzione del ponte di Genova) ci hanno dimostrato che in circostanze eccezionali possiamo superare difficoltà che ci sembravano insormontabili. Non dobbiamo aspettare altre catastrofi per continuare così: ridurre le leggi, individuare le competenze, semplificare le procedure, e soprattutto eliminare la presunzione di colpevolezza dei nostri amministratori, sono la sola via per recuperare l’efficienza anche nella ritrovata normalità. Speriamo che il decreto la percorra con saggezza, e con coraggio. 

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