Il governo italiano assomiglia molto a un’alpinista spaventato, incapace di compiere la mossa – nuova, coraggiosa, ma decisiva - per togliere il Paese da questo strapiombo. Ne è conferma l’ennesima esitazione che ha portato alle ultime misure adottate: un blocco a metà, che chiude il commercio ma lascia aperte fabbriche e industrie.
Anche quelle non collegate alla produzione di beni di prima necessità (alimentari e medicinali). Questa mancanza di coraggio deriva forse da due cause. La prima è legata a una certa nostra tradizione giuridica, soprattutto costituzionale, che si è costruita intorno alla tutela dei diritti acquisiti. Diritti spesso importanti, certo, e fondamentali, come la libertà di circolazione, la libertà economica, l’uguaglianza tra cittadini. E di fronte alla prospettiva di negare questi diritti, l’approccio governativo è stato soprattutto quello del consiglio e dell’invito - della “spinta gentile” direbbero gli economisti - più che della costrizione o della negazione.
Si sono gradualmente alzati i toni (e le sanzioni) senza prevedere obblighi precisi, augurandosi un adeguamento automatico da parte dei cittadini ai comportamenti necessari. Ma è un approccio, se l’ipotesi è corretta, che si è rivelato inefficace; e che comunque era sbagliato già in origine, perché la tutela di ognuno di quei diritti elencati dovrebbe arretrare di fronte a quella più forte e universale del diritto alla salute pubblica.
La seconda causa è invece la già ricordata mancanza di coraggio dal punto di vista economico. Il governo sembra più preoccupato degli effetti di breve che di quelli di medio e lungo periodo. I primi sono legati alle perdite aziendali e ai danni fiscali conseguenti.
Che rischiano ovviamente di essere rilevanti. Ma i danni di questa visione corta sono ben maggiori. Innanzitutto, il principale: il blocco parziale manca di rallentare la diffusione del virus nel paese, costringendo migliaia di lavoratori e le loro famiglie a una esposizione socialmente inutile. Ha effetti anche su coloro che già si sono fermati, perché allunga il periodo di quarantena che serve al paese e che al momento è l’unica vera arma nelle nostre mani. Come liberarsi infatti di un virus per cui non esiste ancora una cura e la cui resistenza a temperature più elevate è ancora da verificare? Resta solo la statistica: limitare i possibili contatti. Eppure, questa basilare regola non sembra aver illuminato né il Presidente del Consiglio né il mondo imprenditoriale, preoccupato principalmente di non perdere mercati.
È evidente come questo mondo non abbia compreso la portata dell’emergenza in atto, anche dopo oltre 15.000 contagi e mille morti. E resta il sospetto anche sul governo. Gli obblighi a implementare misure di sicurezza sono piuttosto vaghi e difficilmente controllabili. E sono naturalmente fonte di ulteriori tensioni tra lavoratori e datori di lavoro, che sfociano in “scioperi sanitari”.
Il caso FCA, non isolato ma certamente rilevante, mostra che la collaborazione tra sindacato e proprietà porta a scelte ragionevoli. Bene dunque che Conte abbia convocato per questa mattina imprese e sindacati. Lo abbiamo scritto anche ieri: i primi interventi dovranno finanziare sia, come è ovvio, la guerra sul fronte (gli ospedali) sia quella nelle retrovie, cioè gli ammortizzatori sociali.
Infine, la troppa prudenza, che ha portato al blocco a metà, crea cittadini di serie A che, seppur tra mille disagi, restano nel posto più sicuro possibile, cioè nelle loro case, e cittadini di serie B, le cui aziende non sono state chiuse e le cui mansioni non sono effettuabili a distanza. Tornano alla mente l’immagine dell’alpinista bloccato, che preferisce attendere la morte certa invece che rischiare, ma anche quella del nostro paese di fronte, pochi anni fa, a una delle peggiori recessioni della sua storia. Lo abbiamo sperimentato: dalle recessioni si esce, con pazienza, fiducia, sostegni alle imprese in crisi, ai lavoratori autonomi, ai disoccupati. A maggior ragione se davvero la Commissione europea confermerà la sua vicinanza al nostro paese. Al contrario, la triste ma semplice verità è che dalle catastrofi sanitarie non ci si risolleva.
Ultimo aggiornamento: 06:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA Anche quelle non collegate alla produzione di beni di prima necessità (alimentari e medicinali). Questa mancanza di coraggio deriva forse da due cause. La prima è legata a una certa nostra tradizione giuridica, soprattutto costituzionale, che si è costruita intorno alla tutela dei diritti acquisiti. Diritti spesso importanti, certo, e fondamentali, come la libertà di circolazione, la libertà economica, l’uguaglianza tra cittadini. E di fronte alla prospettiva di negare questi diritti, l’approccio governativo è stato soprattutto quello del consiglio e dell’invito - della “spinta gentile” direbbero gli economisti - più che della costrizione o della negazione.
Si sono gradualmente alzati i toni (e le sanzioni) senza prevedere obblighi precisi, augurandosi un adeguamento automatico da parte dei cittadini ai comportamenti necessari. Ma è un approccio, se l’ipotesi è corretta, che si è rivelato inefficace; e che comunque era sbagliato già in origine, perché la tutela di ognuno di quei diritti elencati dovrebbe arretrare di fronte a quella più forte e universale del diritto alla salute pubblica.
Che rischiano ovviamente di essere rilevanti. Ma i danni di questa visione corta sono ben maggiori. Innanzitutto, il principale: il blocco parziale manca di rallentare la diffusione del virus nel paese, costringendo migliaia di lavoratori e le loro famiglie a una esposizione socialmente inutile. Ha effetti anche su coloro che già si sono fermati, perché allunga il periodo di quarantena che serve al paese e che al momento è l’unica vera arma nelle nostre mani. Come liberarsi infatti di un virus per cui non esiste ancora una cura e la cui resistenza a temperature più elevate è ancora da verificare? Resta solo la statistica: limitare i possibili contatti. Eppure, questa basilare regola non sembra aver illuminato né il Presidente del Consiglio né il mondo imprenditoriale, preoccupato principalmente di non perdere mercati.
Il caso FCA, non isolato ma certamente rilevante, mostra che la collaborazione tra sindacato e proprietà porta a scelte ragionevoli. Bene dunque che Conte abbia convocato per questa mattina imprese e sindacati. Lo abbiamo scritto anche ieri: i primi interventi dovranno finanziare sia, come è ovvio, la guerra sul fronte (gli ospedali) sia quella nelle retrovie, cioè gli ammortizzatori sociali.
Infine, la troppa prudenza, che ha portato al blocco a metà, crea cittadini di serie A che, seppur tra mille disagi, restano nel posto più sicuro possibile, cioè nelle loro case, e cittadini di serie B, le cui aziende non sono state chiuse e le cui mansioni non sono effettuabili a distanza. Tornano alla mente l’immagine dell’alpinista bloccato, che preferisce attendere la morte certa invece che rischiare, ma anche quella del nostro paese di fronte, pochi anni fa, a una delle peggiori recessioni della sua storia. Lo abbiamo sperimentato: dalle recessioni si esce, con pazienza, fiducia, sostegni alle imprese in crisi, ai lavoratori autonomi, ai disoccupati. A maggior ragione se davvero la Commissione europea confermerà la sua vicinanza al nostro paese. Al contrario, la triste ma semplice verità è che dalle catastrofi sanitarie non ci si risolleva.