La crescita possibile/ Emergenza istruzione l'investimento dimenticato

Lunedì 17 Febbraio 2020 di Paolo Balduzzi
Ancora una volta, le previsioni per la crescita economica nel 2020 ci certificano fanalino di coda tra i Paesi europei, con uno scarso 0,3%, ben distanti dai Paesi migliori (tra questi, l'Irlanda con il 3,6%), dalla media (1,4%) nonché da Francia e Germania, entrambe penultime ma comunque con previsioni di crescita oltre l'1%. E la prospettiva per il 2021 non è certo di gran lunga migliore (0,6%). Un Paese o un popolo non possono essere giudicati esclusivamente sulla base di una variabile economica, naturalmente. Ma ciò non impedisce una qualche considerazione su come le risorse del Paese stesso vengano impiegate e redistribuite. 
Crescita zero, gli ultimi della classe. Un legame molto evocativo e che non si limita ad essere solo un'immagine retorica: tra le origini infatti dell'infinita stagnazione italiana c'è sicuramente anche l'ormai pluridecennale responsabilità del legislatore di investire sempre di meno e sempre peggio nell'istruzione. Lo ha ricordato con grande efficacia Romano Prodi proprio ieri su questo giornale: la scuola deve essere una priorità per questo Paese. E come facciamo a dire che invece non lo è? Innanzitutto, guardando alle cifre: l'Italia spende molto meno degli altri Paesi dell'Unione europea per istruzione, in particolare per quella terziaria.
La spesa per istruzione in rapporto al Pil è infatti intorno al 3,8%, ben al di sotto della media Ue (4,8%). E tale confronto si fa ancora più impressionante quando si osservano le singole voci di spesa del bilancio pubblico: meno dell'8% della spesa pubblica italiana è dedicata all'istruzione, quando invece già solo quella per interessi sul debito pubblico è di poco superiori e quando, per pensioni, la quota di spesa sul totale supera il 30%, cioè circa quattro volte tanto. 
Certo, l'Italia è un Paese che invecchia moto rapidamente, come ha nuovamente certificato l'Istat nei giorni scorsi. Ma anche tenendo conto dello scarso numero di giovani nel nostro Paese, cioè guardando ai dati pro capite aggiustati per l'età, la situazione migliora solo di poco. Peraltro, questo punto di vista ci porta a compiere anche un grossolano errore di prospettiva. Perché motivare la bassa spesa per istruzione con il fattore demografico è una scusa di chi si ostina, per pigrizia o cattiva fede, a non vedere che la relazione causale potrebbe benissimo esser invertita. È l'assenza di strutture pubbliche adeguate, la mancanza di assistenza alle famiglie, l'incapacità di conciliare i tempi della scuola con quelli di lavoro che di fatto delega la gran parte dei costi di formare una famiglia ai genitori stessi. Chi si ostina ideologicamente a sostenere che il welfare non debba essere privatizzato non comprende che, in particolare per l'istruzione e per le cure famigliari, il welfare italiano è privatizzato da anni, ma in modo poco trasparente, e si basa proprio sul tempo e sulle risorse economiche che le famiglie possono mettere a disposizione. La verità è che in Italia non esiste affatto un welfare per i giovani ma solo, nella migliore delle ipotesi, belle parole, grandi convegni e talvolta un ministero che non serve a nulla. In secondo luogo, appare discutibile anche la qualità della spesa per istruzione. Non esiste una vera e propria volontà politica di valutare l'insegnamento (che sarebbe invece necessario) ma solo erronei e reiterati tentativi di valutare gli studenti, sin dalla tenera età. E per quanto riguarda le performance degli studenti, i risultati appaiono contrastanti. Da un lato i test standardizzati internazionali, pur con tutti i limiti che questi possono avere, non ci collocano certe nelle posizioni di vertice, come evidenziato dai più recenti test Pisa del 2019. D'altro canto, uno sguardo alle eccellenze nei migliori istituti di ricerca e università mondiali mostra una vasta presenza proprio di nostri connazionali, molti dei quali si sono formati in Italia e hanno poi deciso di trasferire il proprio capitale umano altrove, dove meglio avrebbe potuto fruttare. Uno spreco senza precedenti e una vera e propria emergenza nazionale. Che però emergenza è solo sui giornali o nelle discussioni accademiche, visto che il legislatore mai si è davvero preoccupato di agire in tale proposito. Terzo: dal punto di vista metodologico, soprattutto per l'istruzione primaria, l'Italia potrebbe essere un Paese all'avanguardia. C'è, giusto per fare un esempio, un metodo copiato e applicato in tutto il mondo, nato in Italia poco più di un secolo fa ad opera di Maria Montessori, che punta allo sviluppo e al raggiungimento dell'autonomia del bambino e che trova il suo apice proprio tra i 3 i 10 anni. Ovviamente ci sono anche approcci diversi. E non è certo l'unico primato che potremmo implementare ed esportare.
La causa principale di una tale amnesia generale sull'istruzione non è certo quindi demografica ma è al contrario squisitamente politica o ancor meglio elettorale: i benefici dell'istruzione si vedranno dopo molti anni, ben oltre l'orizzonte temporale che interessa al legislatore in carica. Che però così compie un gravissimo e duplice errore di valutazione. Primo, perché il benessere delle generazioni future non deve essere immolato a nessuna tornata elettorale. E secondo, perché alcuni di questi benefici emergono anche nel breve e medio periodo: perché strutture adeguate darebbero la possibilità alle donne che lo desiderano di tornare a lavorare dopo il parto; perché sviluppare un'istruzione professionale di qualità anticiperebbe la capacità di diventare indipendente per molti giovani e darebbe loro anche la possibilità di creare posti di lavoro per altre persone; perché, infine, la presenza nella società di una popolazione generalmente più istruita migliorerebbe anche la qualità della vita democratica. E a quel punto anche il corpo elettorale saprebbe benissimo premiare scelte che solo apparentemente penalizzano il presente ma che invece valorizzerebbero il futuro del Paese e la sua crescita.
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