Tra Padania e Pilato/ Un pessimo segnale che danneggia la Capitale

Mercoledì 24 Aprile 2019 di Mario Ajello
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Il muro lumbard. Una sorta di cortina di ferro contro la Capitale. È brutto il segnale leghista sul Salva-Roma, questa impuntatura pregiudiziale e ideologica che via via ha preso le forme più varie: dall’astensione, allo stralcio, fino alla bocciatura di fatto del provvedimento, che dall’inizio era il vero obiettivo di Matteo Salvini. Ed è un brutto segnale non soltanto per questa città ma per l’intera nazione. Perché se il Carroccio e Salvini, ossia la forza di governo che attualmente spicca per protagonismo e il capo politico destinato a decidere sempre di più dei destini italiani, si sfilano in maniera plateale e perfino provocatoria dal discorso su Roma, dall’emergenza della Capitale e dal necessario impegno a fermare il declino della città guida di questo Paese, mostrano una miopia preoccupante e un deficit di patriottismo che danneggia tutti. A cominciare dai cittadini dell’Urbe. Vittime tre volte: del malgoverno della giunta Raggi; della guerra propagandistica tra Carroccio e 5 stelle, che sembra prescindere dagli interessi dei romani per concentrarsi sulla competizione tra botteghe di partito; dell’ormai evidente sottovalutazione da parte del leader lumbard, che pure ha legittime aspirazioni elettorali sul Campidoglio, della questione romana. Minimizzata e svilita nell’ipocrisia dell’“o aiutiamo tutte le città o non ne aiutiamo nessuna”. 
Come se l’unicità di Roma non valesse niente, come se non fosse questa la vetrina che mai come adesso - alla vigilia del voto europeo - il nostro Stato e il nostro governo dovrebbero, in discontinuità con gli esecutivi precedenti quasi sempre poco attenti ai bisogni dell’Urbe, valorizzare fortemente anche per pesare di più nei nuovi equilibri continentali. 
L’etica della presunta convenienza di partito (aggravare le difficoltà dell’alleato-rivale) fa premio in Salvini sull’etica della responsabilità che dovrebbe suggerirgli un’approvazione piena e rivendicata del provvedimento elaborato dal governo di cui il Carroccio è super-azionista. Perché il via libera del Salva-Roma - al posto del tiro della palla in tribuna aspettando il voto del 26 maggio e sperando che la palla non scenda più - non sarebbe stato affatto un aiuto alla Raggi e al suo malgoverno lampante agli occhi di tutti ma una dimostrazione di autentico interesse per i cittadini della Capitale. Se avesse sciolto l’equivoco Roma uguale Raggi, il vicepremier avrebbe evitato un grande errore. Ha preferito sanzionare i cinque stelle piuttosto che aiutare chi sta patendo la loro inefficienza amministrativa. Ha confuso la parte con il tutto. In fondo danneggiando anche se stesso, perché così Salvini passa per un avversario di Roma. E per uno che vuole elargire in ossequio alla vecchia politica mance elettorali a pioggia, a prescindere dalle situazioni specifiche e dal peso che i vari comuni, ma Roma non è un semplice comune, è la città delle città, rivestono nel quadro generale del sistema Paese. 
L’altro errore, facilmente evitabile ma consapevolmente perseguito, sta nel fatto che un leader non più identificato con il Nord, e che aspira a un peso e perfino a un’egemonia ad ogni latitudine, finisce per tornare in quel cliché padanista di chi ce l’ha con i romani. Oltretutto in un momento particolare, che è quello dello Spacca Italia. 
Proprio perché Salvini tatticamente ripete fino allo sfinimento che la legge sulle autonomie non danneggerebbe affatto il Centro e il Sud, dovrebbe dimostrare con i fatti - e il Salva-Roma è un fatto - di non avere pregiudizi e preclusioni geopolitiche di sorta. E invece la sensazione che sta dando il capo leghista, con il negato sostegno alla Capitale, con la sua melina e con il suo catenaccio orgogliosamente rivendicato, è che la priorità del vicepremier e ministro siano gli interessi delle tre regioni del Nord vogliose di autonomia. Se si fosse trattato della Pedemontana, avremmo visto ben altra solerzia da parte del Capitano di una squadra sola, incapace di calarsi nei panni di uno statista che aggrega e che guarda lontano. 
Ecco, il capo leghista si è trovato a scegliere tra il Salva-Roma e lo Spacca-Italia e ha chiaramente optato per il secondo dei due. Ossia non per l’intera nazione di cui Roma è sintesi e cerniera - un grande statista ottocentesco, Francesco Saverio Nitti, diceva che Roma è l’unica città che può tenere insieme un Paese in cui “una metà lo chiama pesce e l’altra metà uccello” - ma solo per una sua parte, quella più ricca. Ed è come se si sia portato avanti con il lavoro Salvini: dimostrando che il non aiuto di oggi alla Capitale in realtà è il preludio di ciò che potrebbe avvenire con la legge sulle autonomie in cui Roma, al netto di uno sperabile sussulto finale di ragionevolezza e di consapevolezza storica, viene vista alla stregua di una città come le altre e non collocata nel rango che merita e rafforzata nella funzione che esercita. 
Lo strabismo sulla Capitale è quello che spinge, in questo revival di ideologia nordista, a non voler vedere Roma per quello che è: il centro di tutto. E non perché è il luogo dei ministeri e della burocrazia, ma perché è la sede delle istituzioni che garantiscono gli interessi generali. 
Non solo gli errori, insomma, spiccano in questa vicenda. Ma anche i paradossi. Uno è particolarmente impressionante. Salvini non passa per essere il duro e il decisionista? Questo il suo format di successo, eppure stavolta sembra convertito al doroteismo (non di primo livello) del procrastinare e dello sfilarsi dalle urgenze e alla tattica poco coraggiosa del lavarsi le mani della sorte di Roma per paura delle reazioni del Nord che già ha avuto tanto e che dovrebbe, senza egoismo, sostenere le ragioni di un riequilibrio tra le parti dell’Italia, nella reciproca convenienza. 
Il Capitano che si fa Ponzio Pilato, senza voler gridare apertamente la sua ostilità verso Roma ma ammantandola con speciose ragioni di giustizia nei confronti delle altre realtà municipali, è una primizia. Se poi nel voto in aula (se mai ci sarà) egli opterà per il sì al Salva-Roma (ammesso che non si perderanno definitivamente le tracce di questa parte del decreto crescita), avrà rimediato in ritardo a questa serie di sbagli in cui si è infilato. Se viceversa insisterà, perfino aggravandolo, nello schiaffo a Roma, questo significherà non la sconfitta della Raggi ma un consapevole e deliberato suicidio nazionale. 
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