Svilire un ruolo/ La laicità perduta della nuova politica

Martedì 15 Gennaio 2019 di Mario Ajello
«La storia si riprete». Non è un errore ortografico, è la battuta che fece un personaggio geniale, Mino Maccari.

E fotografa a pennello l’abdicazione della sindaca Raggi dalla laica facoltà che appartiene al suo ruolo. Quella di decidere come stanziare i soldi - in questo caso le monetine di Fontana di Trevi - senza dover obbedire a un diritto acquisito o a un privilegio per cui dev’essere sempre e comunque la Caritas il destinatario di quell’obolo. E non è nei testi sacri l’affermazione di questa consuetudine e tanto meno questo principio imposto viene sancito dalla Costituzione repubblicana o dalle cavouriane leggi delle guarentigie (che risalgono a dopo la morte dell’inventore dell’Italia ma ne contenevano lo spirito riformatore) o dal Concordato o da altri testi riguardanti la Chiesa, l’Italia e la sua Capitale.

La Raggi avrebbe potuto sfruttare l’occasione per dire: il milione e mezzo di euro della Fontana di Trevi sono della città, e quindi dei romani, e la città ritiene opportuno devolverli a chi fa accoglienza, assistenza, volontariato. E non sarebbe stato un cedimento confessionale questo, ma un atto inattaccabile, e probabilmente molto condiviso, di sovranità. Invece la sindaca ha provato a innovare, ossia ad assumersi la titolarità della gestione di quel denaro, ma ieri è arrivata la retromarcia con raddoppio. Non solo i soldi della Fontana di Trevi - questo l’annuncio di Virginia sull’Osservatore Romano - ma in una sorta di allargamento a macchia d’olio sacro anche le monetine delle altre fontane di Roma saranno l’obolo che il Campidoglio dona, automaticamente, senza contrattare, all’ente religioso. La mossa dell’altro giorno, e l’immediato pentimento. Una forte rivendicazione di autonomia, e poi la resa. C’era da aspettarselo? 

Verrebbe da ricordare, di fronte a questo piccolo grande caso, l’approccio dei migliori esponenti della Dc: servirono lo Stato laico e non la Chiesa. Si potrebbe ricordare quando Alcide De Gasperi, per questioni politico-elettorali romane, andò addirittura allo scontro, nel 1952, con il Vaticano e direttamente con Pio XII. Al quale mandò questo messaggio: «Se mi verrà imposta l’alleanza con la destra, dovrò chinare la testa ma rinuncerò alla vita politica». Vinse lui, e questo esempio serve a ribadire, perché purtroppo sembra essercene ancora bisogno, quanto la visione serenamente laica della cosa pubblica sia garanzia per tutti. 

Ma qui è la politica contingente che fa premio su tutto. L’episcopato da tempo, tramite “Avvenire”, attraverso voci importanti di quel mondo, critica l’amministrazione Raggi sui rifiuti e su altri aspetti. E così, come Salvini quando è arrabbiato con Di Maio se la prende con la Raggi (parla a lei perché lui intenda), anche la Cei usa il bersaglio Raggi per attaccare le scelte del premier Conte e dei 5 Stelle, a cominciare dall’imposta Ires, che dispiacciono assai nel mondo della Chiesa. E guarda caso, ieri Conte ha ritirato la tassa sulla bontà proprio in simultanea con la retromarcia della Raggi sulle monetine. Questa sembra così una sorta di pax politica, ma una pax esosa dal punto di vista dei principi e delle finanze, sulla pelle della Capitale. E arriva dopo una finta guerra di M5S alla Chiesa. Che quest’ultima al momento ha vinto per abbandono del campo da parte dell’avversario. Una nuvola d’incenso, e tutto è tornato come prima, anzi peggio di prima. E così siamo di fronte a un palese deficit di consapevolezza del ruolo di sindaco e a un downgrading della laicità della politica che non è, e non dev’essere, un dogma ideologico ma un codice di comportamento pratico che affonda nella migliore tradizione del liberalismo italiano. E guai a togliere a Cesare quello che spetta a Cesare.
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