Stabilità gialloverde/ Conciliare gli opposti per spartirsi il potere

Mercoledì 6 Febbraio 2019 di Mario Ajello
Crolla. Il governo sta crollando. Proprio non riescono ad andare avanti insieme. Di Maio e Salvini ormai sono come “I Duellanti” di Joseph Conrad e di Ridley Scott. Così recita la vulgata. Poi però - sorpresa! - mentre i due si accapigliano furiosamente sulla Tav, trovano l’accordo che pareva impossibile sulla Consob, altro terreno minato per l’alleanza di governo. E allora, c’è da chiedersi, come mai la provetta dell’esperimento giallo-verde sembra sempre pronta ad esplodere ma al dunque delude tutte le aspettative catastrofiche e produce un tranquillo (si fa per dire) compromesso che verrebbe da definire da vecchia politica. E invece, piaccia o non piaccia, è da neo-politica. 
La Dc era un coacervo di istanze contrapposte e si scannava al suo interno, ma poi arrivava alla sintesi, costretta anche dal fatto che si trattava di uno stesso partito. Con i giallo-verdi, viceversa, anche l’accordo sulle nomine - e prima la Rai, poi l’Inps, l’Istat e in mezzo le altre - non è mai il frutto di una visione comune ma di un assemblaggio di scelte, ora vinco io, ora vinci tu, all’insegna di un pragmatismo che stride sia con la logica razionale (quella degli opposti, quali i due partiti effettivamente sono, che non s’incontrano mai) sia con la logica ideologica (quella per cui stando insieme si mira al medesimo obiettivo). Invece, no.
Il nuovo tipo di convivenza è quella secondo la quale, a turno, un partito fa il [/FORZA-RIENTR]partito di governo e l’altro fa il partito d’opposizione - prendendosi così tutto il mercato - e a vicenda uno vince su un dossier o su una nomina e l’altro su un altro dossier o su un’altra nomina. 
La vaghezza del Contratto di governo è lo strumento adatto per questa politica ad elastico in cui, reciprocamente, da una parte si tira e da una parte si cede e non è vero che vince sempre Salvini. Sennò l’elastico si sarebbe già rotto e invece resiste per farci saltare sopra i due leader, impegnati nel loro wrestling (più duro in fasi elettorali come questa per le elezioni in Abruzzo e in Sardegna e poi quella per le Europee) che serve a eccitare e a tenere ben salde, in modalità carissimi nemici, le rispettive platee.
L’importante è spartirsi, sia pure litigando, la posta del momento. Invece di dare a una società complessa una visione e una politica unificanti, ognuno dà risposte (il reddito di cittadinanza per i pentastellati, la Quota cento per i leghisti) nei settori di propria competenza e a vantaggio del proprio elettorato. In una spartizione dei dividendi che esclude però l’interesse generale - come s’è visto con la manovra economica priva di investimenti e di vere scosse per lo sviluppo del Paese e come si paventa per la legge sulle autonomie a tutto svantaggio del Mezzogiorno - e che sembra far primeggiare ogni volta l’etica della convenienza sull’etica della responsabilità. 
Al vantaggio per i titolari del Contratto, fa da contraltare il danno per i cittadini perché l’instabilità quotidiana seguita dall’intesa pragmatica di facciata non è il modulo migliore per fare scelte di prospettiva e per prendere decisioni per il bene di tutti. Ma è comunque un modulo. Fingono di marcarsi a uomo (io contro di te su tutto, perfino su Maduro) e invece giocano a zona: a me la politica sui migranti, a te certe questioni economiche. Nella giustapposizione di obiettivi contrapposti, il rischio è quello della melina o del catenaccio. Non di un autentico gioco d’attacco. 
La spartizione della posta non è solo per l’oggi. Ma è anche in prospettiva. Nomine e scelte politiche sono un modo per inseminare le istituzioni. Sempre in modalità da separati in casa. Sia i gialli sia i verdi inseriscono o valorizzano figure ai vertici delle istituzioni - ma anche nel resto della filiera dei ministeri, delle magistrature e degli altri organi dell’amministrazione - che devono significare un cambiamento dell’apparato dello Stato e sono il segno di una penetrazione dei “nuovi” in quelle che storicamente si chiamano le casematte del potere. Durerà? 
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