Egemonia in gioco/ Una prova che può cambiare i due partiti o peggiorarli

Sabato 24 Agosto 2019 di ​Mario Ajello
Le lotte e le alleanze politiche sono sempre questioni di egemonia culturale. Nel governo giallo-verde, l’egemonia l’ha avuta la Lega. Anche con certi tratti di positività perché ha spinto o costretto M5S, sulla sicurezza e infine sulla Tav nonostante la finta del voto grillino anti-Conte, a rimangiarsi in parte e obtorto collo la propria impostazione originaria di tipo ideologico e scollata dalle esigenze reali dei cittadini. Ora il problema dell’egemonia si ripropone nel nascente (così pare) esecutivo rosso-giallo. Riuscirà il Pd, nella sua parte migliore, più riformista, più innovativa, più libera dalle catene ideologiche della sinistra ma non si sa quanto maggioritaria, a contaminare i 5 stelle e a farli evolvere verso un’età adulta, perfezionando allo stesso tempo - fatica nella fatica - la propria maturazione? Oppure saranno i pentastellati a risucchiare i dem nel pauperismo, nello statalismo che traspare dai 10 punti di Di Maio, nella retorica dell’uguaglianza fatta per legge e non tramite merito e ascensore sociale?

Se il Pd, che è fragile nella sua tenuta politica e incerto e diviso nel suo indirizzo culturale, si accontenta di diventare la sesta stella dei 5 stelle, sperando così di sfondare nell’elettorato grillino e di piacere di più al proprio popolo cresciuto a pane e radicalismo, la possibile e insieme assai ardua occasione di un “governo di svolta”, come lo chiamano loro, verrà vanificata in breve tempo. Se invece la cultura più avanzata tra le due, cioè appunto quella del Pd pur con tutti i suoi limiti e interne resistenze, riuscirà a moderare le pulsioni demagogiche e di piazza dei grillini - sul conflitto d’interessi, sulla manovra più di mance che di crescita, sul populismo giudiziario, sui cascami della retorica anti-casta, sulla Gronda di Genova e via dicendo - allora un’alleanza che nasce improvvisata esattamente quanto quella fra M5S e Lega potrebbe assumere una fisionomia di maggiore prospettiva. E più adatta a un Paese che, al di là del colore politico di chi lo guida, non vuole e non può stare fermo. 

L’interesse nazionale, al tempo della laicizzazione della politica, prescinde dagli schemi politici. E non può che guardare alle culture in campo e alla capacità di fare sintesi tra queste. La stagione giallo-verde è andata avanti così: tesi, antitesi e scollamento. Stavolta non potrà bastare, per risultare credibili e proficui per le sorti del Paese, la sommatoria della metà del Contratto del precedente governo (questo sono i dieci punti di Di Maio) con il pentalogo di Zingaretti. Serve viceversa quella sintesi che non c’è stata nell’ultimo anno e mezzo e che - visto che i punti di partenza tra Pd e M5S sono meno divaricati rispetto quelli tra Lega e grillini - si è forse in condizione di raggiungere più naturalmente. Il che non significa affatto che sia facile ottenere questa convergenza virtuosa. Anzi, il percorso si rivelerà faticosissimo e accidentato e sul risultato finale è meglio non azzardare previsioni. 

Nell’abilità dei due partiti a fare sintesi, e nella capacità del Pd di fare egemonia in questo sodalizio, si parrà la nobilitate di entrambi i soggetti. Specialmente dei dem che si giocano più degli altri - che vengono da un recente insuccesso - la loro residua credibilità e la loro nomea, auto-attribuita, di professionisti della politica. In altri tempi, non ci sarebbe stata partita. La vecchia sinistra (il Pd) avrebbe facilmente prevalso, sul piano dell’egemonia, sulla nuova sinistra (i grillini, gli avventizi nella partita del potere). Stavolta invece il match è aperto perché il Pd è diviso, è ingabbiato in logiche autoreferenziali e autodistruttive, e ha perso quella “connessione sentimentale” con il Paese che è la linfa vitale di ogni forza politica. L’aderenza ai bisogni degli italiani - pensiamo a quelli delle genti meridionali che hanno votato in massa i 5 stelle lo scorso anno - per certi versi è più profonda nei 5 stelle che nei loro nuovi, possibili, compagni di strada. E così, a volere essere ottimisti e lo sforzo non è da poco, se il Pd o parte di esso potrebbe avere un influsso positivo nell’emancipare i grillini dal loro infantilismo barricadiero, i grillini se ancora conservano qualcosa del loro spirito originario potrebbero aiutare i dem a scrollarsi di dosso quella cappa di Palazzo e quell’aura da presunti ottimati che li rende distanti dai bisogni popolari e piuttosto sordi - come attestano i risultati elettorali e i dati dei sondaggi - rispetto alle domande dei cittadini. 

La politica è insomma una questione di chimica. Il contatto tra gli elementi li trasforma. E c’è da vedere chi tra i due, nel nascente connubio rosso-giallo, verrà più trasformato nel contatto con l’altro. Il rischio involuzione del Pd, ad esempio per effetto del giustizialismo grillino, non va sottovalutato. Mentre per la propria crescita - un rapporto virtuoso di governo dovrebbe basarsi sulla reciprocità, che è precondizione della sintesi - i dem potrebbero attingere dalla lezione dei 5 stelle sul problema dei migranti e delle Ong, che è il lascito più positivamente sentito a livello popolare del governo uscente. 

L’ambiziosa sfida culturale che c’è in questo connubio contribuisce ad aggravare la portata dell’operazione in atto. Sarà molto complicata, piena di insidie sia in partenza sia nel suo svilupparsi. La tentazione di farsi ammaliare (o di fingere di farlo) dalle sirene del benecomunsmo, dell’autonomismo spacca-Italia, della finanziaria senza crescita, dell’ideologia anti-banche e delle altre bandiere propagandistiche inserite da Di Maio nel suo pentalogo potrà agire sul Pd ma significherebbe da parte sua abdicare, in nome della facile scorciatoia e in vista di chissà quali benefici elettoralistici, al principio di verità che è l’unico capace di fare gli interessi del Paese. 

Servirebbe viceversa il coraggio di gettare alle ortiche quei totem identitari di M5S inadatti alla gestione pratica di una nazione moderna. Il che è molto complicato, visto che il celebrante delle nozze è Beppe Grillo, guru ideologico del vecchio grillismo rispolverato, e con lui Fico l’anima alternativa che presiede, oltre alla Camera, l’ortodossia pentastellata. Non sarà certo disposta a far normalizzare e annacquare facilmente le proprie idee l’ala più di sinistra di M5S , che è quella che sta gestendo l’abbraccio con il Pd. 

La vulgata, in queste ore delicate, dice che il problema sta nei nomi: chi guiderà il governo, quali saranno i ministri. La questione naturalmente c’è. Ma le persone giuste si possono individuare. L’impresa più ardua è trovare un programma credibile e ben amalgamato, che garantisca benefici all’Italia. Tenendo ben presente che i voti alle elezioni Europee, e a quelle regionali nell’ultimo anno e mezzo, hanno espresso un messaggio che non va in direzione della sinistra o della tendenza grillo-dem. Potenzialmente, insomma, il nuovo connubio - e in politica non c’è unione tra diversi che non meriti di suscitare attesa - potrebbe rivelarsi una buona occasione, se vissuta con generosità patriottica e con autentico coraggio culturale. Se non sarà così, e le probabilità d’insuccesso esistono eccome, toccherà ancora una volta agli italiani pagare i costi della cattiva politica. 
 
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