Il senso del limite/ La barriera infranta tra libertà e fede

Venerdì 27 Settembre 2019 di Mario Ajello
La sentenza della Consulta sul fine vita è tutt’altro che dogmatica e va a seguire, e non a precedere, un generale cambio di mentalità del Paese su questo argomento delicato e controverso. Al quale il Parlamento per polemiche strumentali e scontri ideologici non ha voluto e non ha saputo dare risposte, scegliendo il pilatismo invece di tracciare una rotta, che è quella che serve ai cittadini. 

La Corte come supplente della politica, ecco. Ed è andata a fotografare un cambiamento sociale. Molti di coloro che erano prevenuti, per motivi spirituali, culturali, religiosi, rispetto a uno strumento così estremo come il suicidio assistito, sembrano via via aver maturato la consapevolezza - al contatto con il dolore dei propri cari e con il proprio impegno di cura e di assistenza - di quanto non sia facile individuare un confine esatto e porre una barriera certa tra la fede e la libertà. S’è fatta strada l’idea, o almeno la sensazione, che la libertà di scelta sul suicidio assistito, in certe circostanze gravi, possa convivere con il personale credo religioso e con l’amore per la vita.

E può rivelarsi un modo, sia pur lacerante, per liberare dall’inferno della sofferenza il malato terminale e per liberare chi gli sta vicino - quando il percorso è ben condotto e in accordo con tutti i soggetti coinvolti - dalla colpa di sentirsi carnefice. 

Questa mutamento di mentalità - che sarebbe sbagliato definire ideologicamente la vittoria del diritto di avere diritti, anche quello più estremo di darsi e di dare la morte - e in generale la centralità del tema del fine vita sono sollecitati dai progressi della tecnica, dall’esistenza di farmaci e di macchine che, pur garantendo una sopravvivenza più lunga, pongono in maniera amplificata il problema etico: fin quando si può prolungare una vita che non è più vita?

«La tecnoscienza - come dice il filosofo Emanuele Severino - non conosce la verità e la rifugge come metafisica e non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». E dunque, su questo crinale, non può che intervenire quella che è l’essenza dell’autentica laicità: la cultura del limite. Perché le scienze, i farmaci, le macchine hanno conferito all’uomo un potere sulla vita e sulla morte che non deve necessariamente essere praticato, specie se offende la nostra dignità e va a colpire il profondo di certi valori etici.

Per tutti questi motivi, il fine vita è il tema giusto per sperimentare un approccio veramente laico (che è l’opposto di laicista) su una materia che lo richiede e lo merita al massimo grado. Le condizioni storiche per farlo forse ci sono. Così come il grande pensiero filosofico, da Plotino a Schopenauer e più avanti fino a noi, ha mosso critiche alla pratica del suicidio (Schopenauer lo considerava «azione inutile e stolta»), anche certo pensiero cattolico sembra avvicinarsi ormai a una cognizione del dolore, quando raggiunge punte di eccezionalità non più umanamente sopportabili, più dialettica e verrebbe da dire più pratica rispetto al canone teologico tradizionale. In questo cambiamento, la morte come liberazione non per forza resta un tabù. 

Ammettere il principio del fine vita quindi è in linea con lo sviluppo della società ma lo strumento va maneggiato con particolare cura, sennò salta il confine tra l’atto di liberazione e l’arbitraria interruzione di una vita. Il baricentro non può che essere la condivisione della scelta tra il malato quando è ancora cosciente, i medici, i familiari. 

Altrimenti, fuori da questo perimetro e in assenza di limiti, staccare la spina finisce per essere più che un suicidio assistito un arbitrio contro il valore della vita che è sacro anche per i laici. La valutazione attenta del «caso estremo» è la cruna dell’ago. E’ ciò in cui si concentrano e interagiscono i valori di chi crede e i principi di chi non crede. E in questa sintesi, se si trova, c’è l’essenza di tutto. C’è la libertà come senso di responsabilità. 
 
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