Trucchi elettorali/La campagna permanente che gioca con le tasse

Sabato 13 Aprile 2019 di Luca Ricolfi
Prepariamoci. Fino alla fatidica data delle elezioni europee (il 26 maggio), ma anche dopo – se il governo sopravviverà – siamo destinati ad essere sommersi da una girandola di cifre, aliquote, clausole, scaglioni, detrazioni, deduzioni, sgravi, regimi fiscali speciali o agevolati, con cui cercheranno di acquisire il nostro favore, cioè il nostro voto. 

Possiamo stare certi che sentiremo decine di ipotesi di “rimodulazione” delle aliquote, innumerevoli dichiarazioni sull’assoluta esigenza di alleggerire il carico fiscale delle famiglie, disinnescare l’aumento dell’Iva, combattere l’evasione, introdurre più o meno rapidamente la flat tax. E poiché, come sempre, mancheranno cifre certe e dettagli essenziali, sarà difficilissimo capire che cosa davvero ci viene gentilmente promesso.

In questa situazione, però, una bussola relativamente chiara c’è. È un numeretto semplice-semplice, che non dice tutto sulla politica economica di un governo, ma dice molto. Anzi moltissimo. Questo numeretto è la pressione fiscale, ossia il rapporto fra le entrate totali della Pubblica amministrazione e il Pil. Se la pressione fiscale diminuisce (come quasi tutti promettono, in campagna elettorale), allora vuol dire che il governo sta dando ossigeno all’economia. Se invece aumenta, allora significa che il governo sta soffocando l’economia.

Certo quel numeretto non dice tutto, perché non è la stessa cosa prelevare ai ricchi o ai poveri, alle imprese grandi o a quelle piccole, all’economia regolare (inasprendo le aliquote) o a quella irregolare (costringendo gli evasori a pagare il dovuto). Però resta il fatto che dentro quel numeretto c’è l’essenziale, perché fornisce il segno della politica fiscale.

Il vantaggio di ragionare sulla pressione fiscale, anziché sulle singole misure, è che neutralizza il comando “facite ammuina” che, a giudicare dalle dichiarazioni, dalle interviste e dai tweet, tutti i governi paiono indirizzare ai loro ministri quando le risorse sono scarse rispetto alle promesse. Lo scopo del “facite ammuina” (confusione, in dialetto napoletano) è inondare l’opinione pubblica di presunte misure di alleggerimento fiscale, senza menzionare le contromisure, anch’esse di natura fiscale, che finanziano e quindi neutralizzano più o meno integralmente le prime. Fra tali contromisure vorrei ricordarne una ovvia e due che lo sono molto di meno.
La contromisura ovvia è l’aumento di altre tasse, di cui si parla pochissimo o si parla ideologicamente, per non dire infantilmente (far piangere i ricchi, punire le banche cattive, ecc.). Le due contromisure meno ovvie sono la cosiddetta lotta all’evasione fiscale e la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia il disboscamento della selva delle esenzioni, crediti di imposta, deduzioni e detrazioni varie. 

Questi ultimi due tipi di misure sono interessanti perché, a prima vista, sono meritorie (e in parte lo sono davvero), in quanto capaci di eliminare iniquità e privilegi. Chi non è d’accordo sul fatto che è ingiusto che il carico fiscale pesi sui contribuenti onesti, e che una miriade di professionisti, artigiani, partite iva, esercizi commerciali, microimprese evadano in tutto o in parte le tasse? Chi non si chiede come mai certe categorie di imprese, associazioni, settori produttivi debbano godere di speciali agevolazioni e sgravi, che sono invece negati ai contribuenti “normali”?

E tuttavia, se ci si riflette attentamente, non è difficile accorgersi dell’altra faccia della luna. Ogni azione di riduzione dell’evasione fiscale e delle agevolazioni, oltre a produrre pesanti riflessi produttivi e occupazionali, comporta inesorabilmente un aumento della pressione fiscale. Questo non significa che non si debba cercare di ridurre evasione e privilegi fiscali ingiustificati, ma che la domanda che dobbiamo farci sempre è del tipo: ok, il tale governo promette una riduzione di una o più imposte, ma si può sapere se, e in che misura, quelle lodevoli riduzioni saranno finanziate, e quindi vanificate, da aumenti di gettito in altri punti del sistema?
Ecco perché, alla fine, il numeretto della pressione fiscale è cruciale. Una riforma dell’Irpef, dell’Irap, dell’Ires o di altre imposte che riduca alcune aliquote e si accompagni anche a una riduzione della pressione fiscale è positiva perché restituisce un po’ di ossigeno all’economia. Una riforma che riduca certe tasse, magari scelte fra le più impopolari, ma aumenti la pressione fiscale è negativa perché soffoca l’economia.

Questa seconda eventualità è, purtroppo, quella in cui siamo incagliati attualmente. Con la legge di bilancio dell’anno scorso, che ora sta dispiegando i suoi effetti, si è deciso di ridurre alcune tasse ma se ne sono aumentate talmente tante altre che la pressione fiscale complessiva è salita (nel 2019 è prevista al 42,4%, contro il 42,0% dell’anno scorso). Per l’anno che viene rischia di andare anche peggio. Mentre si favoleggia di flat tax (che flat comunque non sarà, visto che si parla di due aliquote), si cercano disperatamente le risorse (23 miliardi) per evitare l’aumento dell’Iva, che questo governo ha messo nella legge di bilancio per evitare la bocciatura dell’Europa. 
Ma le uniche fonti di finanziamento strutturali ipotizzate sono la spending review (per un importo ridicolo: circa 2 miliardi nel 2020) e il taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia delle esenzioni e agevolazioni, un’azione che per definizione fa salire la pressione fiscale: tagliare gli sgravi, infatti, significa precisamente aggravare il peso del fisco sui contribuenti. Le previsioni che circolano, forse fin troppo ottimistiche, ipotizzano un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2020, che salirebbe dal 42,4 al 42,8%. Ma state sicuri che, quel numeretto, si farà di tutto per avvolgerlo con una fitta nebbia, perché rivelarlo significherebbe far crollare il castello di carte della politica fiscale: che consiste nel fingere che tutto cambi, nascondendo il dato cruciale, ossia che complessivamente pagheremo più tasse di prima.

Dunque la cruda realtà è questa. Proprio perché la pressione fiscale aumenterà anche l’anno prossimo, al governo gialloverde non resterà che la consolidata tecnica del “facite ammuina”. È facile prevedere lungo quali linee. L’aumento dell’Iva ci sarà, ma sarà presentato come una “rimodulazione”, in modo che non sia troppo evidente che complessivamente l’imposta è aumentata (anche se meno di 23 miliardi, si spera). La cancellazione di sgravi ed esenzioni sarà presentata come una grande operazione di “riordino”, per nascondere il fatto che, anche qui, si chiede agli italiani di pagare più tasse. 

Infine, per dare l’impressione che sulla flat tax qualcosa si sia cominciato a fare, qualche tassa e qualche aliquota sarà ritoccata verso il basso, naturalmente attingendo al gettito delle tasse che si sono aumentate o degli sgravi che si sono cancellati. 

Però attenzione: è molto probabile che le poche aliquote che saranno un po’ alleggerite saranno quelle dell’Irpef, che grava sulle famiglie, e non quelle dell’Ires o dell’Irap, che gravano sulle imprese. Perché la stella polare di chi ci governa, non solo in Italia e non da oggi, è la massimizzazione del consenso. Con un’importante differenza rispetto al passato. Un tempo gli studiosi di politica economica, per segnalare il fatto che, sotto elezioni, le decisioni dei governi diventavano demagogiche, parlavano di “ciclo elettorale”, ossia di un’anomalia che si presentava periodicamente, ogni 4 o 5 anni, in prossimità delle elezioni politiche. Oggi parlare di ciclo elettorale non ha più senso, perché i politici sono sempre in campagna elettorale, a prescindere dall’imminenza di scadenze elettorali. 
L’idea che, valicato l’appuntamento elettorale, possa esservi, se non un ritorno alla ragione, almeno un allentamento del calcolo del consenso, è completamente fuori della realtà. Ormai i politici sono in campagna elettorale sempre, ogni anno, ogni mese, ogni giorno e minuto. E la qualità delle decisioni politiche è esattamente quella che, in queste condizioni, è lecito aspettarsi. 

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