Welfare e migranti/ Ciò che unisce e divide la sinistra e il grillismo

Sabato 9 Marzo 2019 di Luc Ricolfi
È curioso il modo in cui le primarie del Pd sono state raccontate da quasi tutti i mezzi di comunicazione: l’affluenza ai gazebo sarebbe stata “massiccia”, un vero e proprio plebiscito avrebbe sancito la leadership di Zingaretti. Leggendo questi commenti, mi è tornata alla mente una delle grandi lezioni dell’economia della felicità (una disciplina che ha avuto in Tibor Scitovsky, autore di “The Joyless Economy”, uno dei grandi maestri): quel che conta davvero non è il risultato in sé, né il confronto con il passato, ma è il confronto fra la realtà e le aspettative. 
È così che può succedere che un ricco si senta frustrato solo perché può permettersi una Audi ma non una Ferrari, mentre un elettore del Pd può sentirsi felice solo perché, alle primarie, sono andati più di un milione e mezzo di persone anziché meno di uno. Eppure, a guardare le cifre, viene in mente la celebre battuta di Mark Twain: la notizia della mia morte è fortemente esagerata.

Era decisamente esagerata, infatti, la più volte proclamata scomparsa, autodistruzione, implosione del Pd, un costrutto mediatico che è servito solo a poter raccontare, dopo le primarie, il miracolo della resurrezione. Ma basta dare un’occhiata ai dati per rendersi conto che la storia è molto più semplice e lineare. Il Pd non era mai scomparso, perché un partito che nei sondaggi è dato intorno al 18% non può essere considerato né morto né moribondo, ma al tempo stesso è vero che il risultato del Pd, confrontato con quelli del passato (anziché con i fantasmi dei commentatori), rappresenta un punto di minimo: mai alle primarie l’affluenza era stata così bassa, e sempre (tranne in un caso: Bersani 2009) il vincitore aveva riscosso un consenso più largo.

Detto tutto questo, che il tramortito popolo di sinistra abbia potuto tirare un sospiro di sollievo, e abbia finalmente un capo riconosciuto e democraticamente eletto è un fatto estremamente positivo. Questo non solo perché, dopotutto e al di là dei suoi difetti e limiti, il Pd è “l’ultimo partito” vero rimasto sulla piazza (così, giustamente, lo definiscono Paolo Natale e Luciano Fasano nel loro ultimo libro), ma perché l’uscita del Pd dallo stato di smarrimento post-elettorale permette finalmente, alle soglie delle elezioni europee, di tornare a porsi interrogativi importanti per il futuro del Paese. Che strada imboccherà il Pd? Dobbiamo prepararci ad un’alleanza con i Cinque Stelle, e a un sostanziale ritorno della dialettica fra destra e sinistra? O il Pd cercherà di diventare il pilastro di un fronte anti-populista, magari esteso da Forza Italia a Più Europa?

La mia sensazione è che quel che il futuro ci riserva sia una lenta marcia di avvicinamento fra Pd e Cinque Stelle, favorita dall’autosufficienza del centrodestra e dalla crescente debolezza del movimento fondato da Grillo. Quel che oggi sembra impossibile, o difficilissimo, o semplicemente sbagliato, domani potrebbe diventare realtà. Dico questo non perché ci sia una ragione unica e forte che me lo faccia pensare, ma perché mi pare che siano tante le ragioni, piccole e grandi, che spingono nella medesima direzione.

Una prima, importantissima, è che se continua la cannibalizzazione gialloverde, con Salvini che si mangia Di Maio e poi va al voto, un’alleanza Pd-Cinque Stelle potrebbe risultare, per entrambi, l’unico modo di tornare al governo. Una seconda ragione è che un ponte fra i due esiste già, ed è dato dalle truppe di Leu e della sinistra Pd, da sempre ammiccanti ai Cinque Stelle (decreto dignità, spesa in deficit, critica all’Europa, anti-renzismo). Una terza ragione, ben più importante, è che sulla politica sociale il Pd zingarettiano e i Cinque Stelle sono quasi indistinguibili, o meglio tentano disperatamente di distinguersi senza riuscirci: le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito di inclusione, o fra salario minimo del Pd e salario minimo dei Cinque Stelle, sono questione di sfumature, di soglie, di tempi, di meccanismi di implementazione, ma filosoficamente sono minime. Del resto, qualcuno potrebbe stupirsi se, dopo il “contratto” fra due opposti come Lega e Cinque Stelle, ci venisse proposto un contratto fra due affini come Cinque Stelle e Pd?

Ma la ragione più importante per cui penso che, in futuro, potremmo anche vedere un governo Pd-Cinque Stelle, è un’altra ancora e ha a che fare con l’immigrazione. Sull’immigrazione, è verosimile che il Pd di Zingaretti riproduca la linea aperturista, da “partito radicale di massa”, illuminato e cosmopolita, già sperimentata in passato, chiunque lo guidasse. Questa scelta, se confermata, terrà stabilmente lontani dal Pd gli elettori che, pur sentendosi di sinistra, non condividono la linea dell’accoglienza, e quindi non sono più disposti a votarlo. Dove si rifugeranno questi elettori?

Una possibilità è che trasmigrino verso la Lega di Salvini, come attualmente sta succedendo. Ma una possibilità diversa, da non escludere, è che in futuro una parte di essi bussi alla porta dei Cinque Stelle. Chi ha studiato in profondità Grillo e il Movimento Cinque Stelle ha più volte segnalato che, sull’immigrazione, la visione del Movimento è, se mi si permette l’espressione, di ragionevole ostilità. Ostilità perché non amano le Ong e detestano il fenomeno dei “taxi del mare” (espressione coniata da Luigi Di Maio), ma “ragionevole” perché i toni della polemica contro l’immigrazione irregolare non hanno mai raggiunto le vette della retorica salviniana. Sul tema dell’immigrazione, gli (opposti) estremisti sono la Lega e il Pd, mentre i Cinque Stelle (ma anche Forza Italia) stanno al centro, su posizioni relativamente moderate. 

Di qui un’eventualità: anziché combattersi eternamente come nemici politici, Pd e Cinque Stelle potrebbero, prima o poi, entrare nella fase della competizione, cercando di attirare segmenti di elettorato diversi, che nessuno dei due, da solo, è in grado di catturare interamente. Perché agli elettori del Pd, ligi alla “cultura del lavoro”, sarà sempre difficile accettare che l’assistenzialismo vada oltre una certa soglia, agli elettori dei Cinque Stelle sarà sempre difficile accettare che, ad andare troppo oltre, siano le politiche di accoglienza dei migranti. 
Né dobbiamo stupircene troppo: nel popolo di sinistra, oggi come ieri, c’è anche tanta domanda di assistenza; e nello stesso tempo, oggi diversamente da ieri, c’è anche tanta ostilità verso l’immigrazione irregolare.
Ecco perché penso che, alla fine (fra un po’ di anni), saranno due partiti, e non uno solo, a rappresentare queste diverse anime del mondo progressista. E sarà un’unica formula, la formula magica del “contratto”, a permettere loro di governare insieme dopo il voto. 

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