La lezione da trarre/ La rivoluzione dei dati è la via per salvarci

Martedì 17 Marzo 2020 di Francesco Grillo
Dobbiamo abituarci a considerarla ormai la prima guerra mondiale dell’era Internet. Un conflitto che si combatterà attraverso i terminali di un computer, oltre che nelle corsie degli ospedali. Cambierà, e per sempre, le nostre vite e gli equilibri di un ordine mondiale che era già malandato e a deciderne le sorti saranno un nuovo genere di proiettili.

Proiettili da utilizzare in maniera strategica: i dati e la capacità di analizzarli in maniera utile per assumere decisioni e risolvere problemi. Se la guerra è di questo tipo, la strategia vincente potrebbe, allora, essere completamente diversa da quella che quasi tutti i Paesi stanno adottando. La storia di Israele e Corea del Sud, società abituate a vivere ad un passo dalla guerra aguzzando l’ingegno, suggerisce che potrebbe essere stato un errore affidare tutte le nostre speranze ad una sola scommessa, ad un solo decreto che vale sull’intero territorio nazionale. Siccome stiamo affrontando un nemico di cui conosciamo poco, potremmo, invece, sperimentare tecniche un po’ diverse (escludendo quelle che sembrano partire dall’idea di perdere «milioni di nostri cari») su diverse aree geografiche; misurare in tempo reale quali sono gli effetti, coinvolgendo cittadini e amministrazioni; estendere i metodi che funzionano sull’intero territorio nazionale per sconfiggere più velocemente l’emergenza.

Il metodo scientifico – quello vero, non quello degli “esperti televisivi” – dice che questa è forse l’unica possibilità di minimizzare ulteriori perdite e trasformare questa sciagura in un rafforzamento di società fragili. 

Che saranno i sistemi informativi a decidere la guerra, è dimostrato dal fatto che, di fronte all’emergenza, praticamente ciascuno dei Paesi coinvolti – tutte le maggiori economie del Mondo – ha elaborato una sua originale risposta: si va dalla chiusura totale ma localizzata della Cina, fino al negazionismo dell’amministrazione americana, passando per la deliberata scelta di non fare nulla che Boris Johnson ha giustificato facendo riferimento a Darwin. In mezzo si distribuiscono in maniera sgranata i diversi Paesi dell’Unione Europea (mentre in Italia le Regioni pretendono di chiudere i confini, le città chiudono i parchi e le squadre di calcio interpretano, a modo proprio, i protocolli sui tamponi). 
Ciascuna strategia è, peraltro, corredata da pareri di esperti che, evidentemente, hanno ciascuno una propria idea e poco può fare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, pochissimo l’Unione Europea per coordinare la risposta ad un mostro che sembra poter attraversare confini e muri senza problemi. Tuttavia, tale diversità è, in gran parte, dovuta alla circostanza che stiamo affrontando un nemico di cui conosciamo ancora poco. 
L’approccio giusto – quello al quale i Paesi asiatici sono più abituati – è, allora, un altro e passa attraverso tre scelte.

La prima condizione è utilizzare l’emergenza per chiudere, finalmente, i cantieri interminabili della digitalizzazione delle amministrazioni e della sanità. L’epidemia rende drammaticamente chiaro l’importanza di condurre lo scontro da un’unica centrale informativa nazionale in grado di confrontare dati omogenei su tutto il territorio nazionale. Giorno dopo giorno, comune per comune. Ciò è indispensabile per identificare le criticità prima che esplodano, individuare metodi da replicare, riorganizzare l’offerta. Le cartelle cliniche, gli interventi in pronto soccorso, i numeri sui ricoverati a casa e in quarantena (attualmente raccolti presso i dipartimenti di prevenzione delle Asl e i medici generici), le storie individuali e gli stili di vita, devono alimentare in tempo reale un unico archivio nazionale e un fascicolo unico per ciascuna persona. 

Non meno importante è il ruolo dei cittadini. In Corea del Sud e in Israele – e non solo in Cina – gli spostamenti di (quasi) tutti sono tracciati dai loro stessi telefoni cellulari. I parametri fondamentali di ogni cittadino sono rilevati a distanza e, immediatamente, se superano certe soglie, ricevono a domicilio il controllo con il tampone. Tutti quelli che sono passati accanto o hanno frequentato soggetti risultati positivi, ricevono attraverso il telefono un allarme.

Infine, se avessimo i numeri e la collaborazione di tutti, potremmo consentirci un ulteriore fondamentale evoluzione: sperimentare approcci deliberatamente diversi nelle diverse aree geografiche del Paese, in maniera da riempire i buchi di conoscenza che la situazione nuova svela. Non sappiamo, ad esempio, se i guariti sono immuni; non siamo sicuri quali siano i criteri più efficienti per regolare la somministrazione dei tamponi; o se, in alcuni contesti, possano essere utili ulteriori chiusure o qualche apertura rispetto a caratteristiche del virus che sono, ancora, incerte. In un Paese realmente diviso in aree tra le quali non ci si può muovere, potremmo usare la diversità come strumento per ottenere conoscenza utile per abbreviare il conflitto.

Certo c’è da fare un grande sforzo di coordinamento e derogare a diritti che non avremmo mai pensato di mettere in discussione. Ma le democrazie sanno difendersi e non siamo già più in una situazione ordinaria. Con un progetto di questo genere, mettendo in campo il valore dell’informazione e l’astuzia di chi sa che si sta giocando tutto, possiamo trovare il modo di vincere la prima di una serie di guerre che il nuovo secolo ha incubato. E di fare un salto di qualità nella capacità di utilizzare le tecnologie per risolvere problemi concreti che – dopo l’inevitabile crisi economica che taglierà di diversi punti la crescita economica di quest’anno – ci può portare fuori da una stagnazione che sembrava secolare.
 
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