Il ruolo del Wto / L’economia globale e i controlli che mancano

Venerdì 30 Dicembre 2022 di Francesco Grillo

Cosa rimane della globalizzazione? La crescita del commercio mondiale è stata indubbiamente il fenomeno che ha definito la storia dopo la Seconda guerra mondiale. E che ha accompagnato il più grande balzo in avanti nei livelli di benessere che l’umanità abbia mai vissuto. E, tuttavia, la globalizzazione ha prodotto anche contraddizioni dolorose: diseguaglianze nuove e omologazioni insopportabili che ne avevano moltiplicati i nemici e rallentato la marcia ancora prima che arrivasse il Covid. L’anno della guerra sembra aver fatto crollare ancora di più la fiducia tra Stati che della globalizzazione è condizione essenziale. La sfida del prossimo anno sarà soprattutto quella di trovare il modo di governare fenomeni che rischiano di morire dei propri eccessi impoverendoci tutti. 
Fu David Ricardo a dimostrare matematicamente che tra due Paesi conviene sempre commerciare, specializzandosi ciascuno sulla produzione nella quale ha un vantaggio comparativo. Quel ragionamento fornì – all’inizio dell’Ottocento – una teoria alla prima grande ascesa del commercio mondiale e una missione a quell’impero britannico costruito attorno agli affari della Compagnia delle Indie (così si chiamava la prima delle multinazionali, quella che per conto della Regina Vittoria governava buona parte del Sud Est Asiatico). Nel 1915, il commercio tra Paesi valeva un quarto del Pil globale e questa percentuale – scesa drammaticamente con le guerre - fu raggiunta nuovamente solo nel 1975 alla fine di una grave crisi energetica. Da quel momento il peso delle importazioni ed esportazioni è aumentato fino al 51% nel 2008 e ciò ha reso possibile una serie di “miracoli economici”: negli ultimi trent’anni, il reddito per abitante è aumentato di tre volte; il tasso di inflazione (che negli anni Settanta era attorno al 15%) diminuito fino a stabilizzarsi attorno al 2% (fino a un anno fa); un miliardo di persone sono uscite dalla povertà assoluta e di queste 600 milioni nella sola Cina. 
E, tuttavia, sono già dieci anni che la globalizzazione sembra rallentata dai suoi stessi eccessi. La disuguaglianza tra i Paesi è diminuita (anche se rimangono dietro l’Africa e territori i cui despoti decidono di “specializzarsi” nell’estrazione di minerali rari); ma è aumentata quella all’interno dei Paesi (ad esempio in Cina; ma anche in Europa tra chi detiene capitali e chi conta solo sul proprio lavoro). L’urgenza di aumentare i consumi di chi oggi vota, sta riducendo i diritti delle generazioni che vivranno il futuro. E, soprattutto, la creazione di vincitori globali sta riducendo la differenza tra culture che era proprio ciò che rendeva l’esperienza dello scambio quella che più di ogni altra produceva progresso.
La globalizzazione senza regole, proprio come i mercati lasciati a sé stessi, può essere bruciata dalla tendenza a coltivare il proprio esatto contrario. E, dunque, ad alimentare i propri stessi nemici. Ed è dalle promesse non mantenute di un’economia senza barriere doganali, che è nata la tentazione di molti di chiudersi nel territorio che si conosce meglio. È dalla crisi finanziaria del 2008 che il commercio mondiale non cresce più. Il Covid ha poi letteralmente congelato i commerci; e quando sembrava che stessimo tornando alla normalità, è arrivata la guerra a spazzare via la fiducia minima tra Stati di cui la globalizzazione ha bisogno.
Oggi, persino la Commissione Europea, rimasta per anni da sola a difendere il simulacro del libero scambio, è costretta a fare della “sovranità” priorità assoluta. Dopo aver combattuto sovranismi interni che rischiavano di sgretolarla. Si cerca di ridiventare sovrani soprattutto per evitare di dipendere da chi potrebbe diventare tuo nemico (come è successo con la Russia). Quando cominci a sospettare di esser circondato di partner inaffidabili. La “deglobalizzazione” diventa dunque un accorciamento delle catene logistiche, distributive, produttive che disegnavano un’economia globale integrata.
E, tuttavia, “ristabilire il controllo su risorse critiche da condividere con Stati amici” è una strategia che pone due problemi assai concreti. Il primo è che la lista di ciò che è critico viene continuamente cambiata dalla tecnologia: in questi mesi, si stanno producendo le prime batterie elettriche senza cobalto e nichel, il cui controllo sembrava dare un vantaggio insormontabile alla Cina. Il secondo problema è che cambia anche la mappa dei Paesi con i quali condividere valori e interessi. Con la velocità di elezioni e sondaggi, persino, tra Paesi dell’Unione europea si fa fatica a capire con chi definire politiche energetiche destinate a durare. 
Una strategia diversa è quella di ridurre la probabilità della guerra, proprio muovendosi nella direzione contraria: aumentando le dipendenze che riducono gli incentivi al conflitto; e minimizzando le concentrazioni eccessive di materie prime indispensabili in pochi Paesi (che è il vero motivo per il quale superare petrolio e gas). I principi dell’economia classica sono ancora attuali. Conviene un’economia nella quale ci si divide il lavoro perché l’alternativa produce l’aumento dei prezzi che ci sta già impoverendo e la riduzione della convenienza a non ricorrere alla guerra. Tuttavia, alla globalizzazione economica devono corrispondere strumenti di governo globali. E, invece, l’Organizzazione del commercio mondiale (Wto) è paralizzata da due anni per la decisione di Trump di bloccare la nomina dei giudici che definiscono dispute tra Stati. L’amministrazione Biden ha tanti meriti ma su questo sembra concordare che viene – prima e comunque – l’interesse del proprio elettorato.
Il problema non è nella globalizzazione. Ma nella incapacità di governare un fenomeno guidato dalla tecnologia e dai capitali, con istituzioni che si sono invece indebolite. È insieme economica, politica e morale, la sfida decisiva che decide se le generazioni future potranno proseguire il viaggio che era cominciato quando i leader di un altro mondo decisero di non potersi più permettere guerre.
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