Tfr versato agli statali molti anni dopo, il caso oggi alla Consulta

Una volta andati in pensione, i dipendenti pubblici ricevono la loro buonuscita con anni di ritardo: un problema, vista la dimensione del fenomeno, che ha generato non poche polemiche, talvolta finite anche nelle aule di giustizia

Martedì 9 Maggio 2023 di Osvaldo De Paolini e Andrea Bassi
Tfr versato agli statali molti anni dopo, il caso oggi alla Consulta

Una volta andati in pensione, i dipendenti pubblici ricevono la loro buonuscita con anni di ritardo: un problema, vista la dimensione del fenomeno, che ha generato non poche polemiche, talvolta finite anche nelle aule di giustizia.

Ma quest’oggi la Corte Costituzionale potrebbe pronunciare una parola definitiva sulla questione. Due sono le ragioni all’origine dell’anomalia. La prima è normativa. Durante la grave crisi all’inizio del decennio scorso, nata dal fallimento di Lehman Brothers e seguita con la tempesta sul debito pubblico, a tutti gli italiani vennero chiesti grandi sacrifici per impedire che il Paese finisse alla mercé dei mercati: arrivarono la legge Fornero e l’introduzione dell’Imu, la tassa sulla casa. Fu inoltre deciso che anche i dipendenti pubblici avrebbero dovuto partecipare con un contributo aggiuntivo, avendo essi il posto di lavoro garantito mentre nel settore privato fioccavano licenziamenti e cassa integrazione. 

Furono così bloccati gli aumenti di stipendio, congelate le assunzioni e deciso di posticipare il pagamento del Trattamento di fine servizio (Tfs) e di quello, per gli assunti dopo il 2000, di fine rapporto (Tfr). Sicché per ottenere la liquidazione, oggi i dipendenti pubblici devono compiere 67 anni e attendere altri due anni per ricevere l’accredito. Inoltre, uno statale che abbia lasciato il lavoro usando uno scivolo pensionistico come Quota 100, riceve i soldi solo dopo sette anni.
C’è poi una seconda ragione: l’inefficienza del sistema. L’Inps, caricato di mille nuovi compiti, non sempre elabora le pratiche con la necessaria rapidità, così l’attesa può protrarsi per altri lunghi periodi. Questa situazione di evidente iniquità oggi potrebbe trovare un aggiustamento per opera della Corte, chiamata a pronunciarsi sulla coerenza della legge con i principi della Carta. I Supremi giudici si sono già espressi una volta su questo tema: nel 2019, esaminando il caso di uno statale “prepensionato”, avevano deciso che ritardare il pagamento della liquidazione poteva essere considerato lecito se il lavoratore aveva lasciato in anticipo il suo posto. Ma i giudici avevano anche invitato il Parlamento a cambiare le norme, perché se il ricorso fosse arrivato da un dipendente che avesse lavorato fino al compimento dei 67 anni, allora difficilmente la Corte avrebbe potuto giustificare il pagamento ritardato: i casi giudicati oggi riguardano due dipendenti pubblici che si trovano esattamente in questa situazione. Sicché i giudici dovranno decidere se confermare la linea del 2019 o modificarla.

Si tratta di un passaggio molto delicato anche per il governo. Ogni anno vanno in pensione circa 150mila dipendenti pubblici, che hanno diritto ad una liquidazione media di 70mila euro. Pagarla tempestivamente a tutti significherebbe dover trovare non meno di 10 miliardi ogni anno. Nella sua memoria, l’Inps indica ai giudici una via d’uscita. Eccola, semplificata al massimo: distinguiamo tra Tfs e Tfr; il primo è la vecchia “buonuscita”, una somma calcolata in base agli anni di lavoro e alla retribuzione; il Tfr, invece, è retribuzione differita, come per i lavoratori privati. Solo quest’ultimo andrebbe perciò parificato a quello dei dipendenti privati e, dunque, pagato immediatamente. Il Tfs, invece, ha caratteristiche diverse e quindi può avere regole diverse, compreso il posticipo del versamento.

L’intento è chiaro. Siccome i dipendenti pubblici che hanno il Tfr sono stati assunti dal 2001, andranno in pensione solo dopo il 2040. Quanti stanno lasciando il posto di lavoro in questi anni, sono invece sotto il vecchio regime del Tfs. Se questa soluzione fosse accettata, lo Stato risparmierebbe miliardi. La tesi dell’Inps può anche apparire convincente, se non fosse che non tiene conto di un convitato di pietra: l’inflazione. Ai valori attuali, pagare la liquidazione con soli due anni di ritardo equivarrebbe a un taglio reale della buonuscita di oltre il 10%. E dunque, se la decisione della Corte fosse di confermare comunque il pagamento ritardato, una soluzione equa sarebbe riconoscere quantomeno la rivalutazione delle somme in base all’inflazione per non penalizzare decine di migliaia di dipendenti, dai poliziotti ai medici, che per tanti anni hanno compiuto il loro dovere nei confronti della comunità.

Ultimo aggiornamento: 11:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA