Nuove economie/ Il centro del mondo così lontano dall’Europa

Martedì 28 Settembre 2021 di Francesco Grillo

Una delle più efficaci rappresentazioni di come sta accelerando la storia, è quella che viene fornita dal calcolo del “centro di gravità economica del mondo”.

Tale punto è misurato trovando il baricentro tra le economie dei diversi Paesi: se crescono più quelli occidentali e dell’emisfero settentrionale il centro del pianeta si sposta in direzione nord–est ed il contrario succede se prevale la tendenza opposta. Secondo le stime della società McKinsey, questo punto era – paradossalmente – collocato al confine tra Afghanistan e Pakistan nell’anno zero e bilanciava la forza di tre imperi – quello cinese, indiano e romano – che neppure si conoscevano reciprocamente. Si era spostato nell’Oceano Atlantico, tra Boston e Londra nel 1990. Trent’anni dopo sta varcando il confine settentrionale del Xinjiang (Cina) con la Siberia. Se il declino degli imperi d’oriente aveva portato il centro del mondo al centro dell’Atlantico in due millenni, stiamo oggi assistendo ad un velocissimo “ritorno al futuro” cominciato proprio quando uno studioso americano immaginò – con il crollo del muro di Berlino – che la storia fosse finita con il trionfo dell’Occidente.

Negli ultimi due mesi, il processo è indubbiamente accelerato. Gli Stati Uniti di Biden hanno troppo velocemente abbandonato il pantano (Iraq e Afghanistan) nel quale hanno speso circa 4 trilioni di dollari in vent’anni per spostare tutta la propria energia nel Pacifico: anche per il Paese che fu l’artefice dell’ordine mondiale che governò la seconda parte del ventesimo secolo, siamo alla ricerca di un ordine nuovo. 

Con il trattato militare tra Australia, Usa e Uk (Aukus), vengono, infatti, infranti almeno due tabù. Il primo è che l’accordo prevede che Stati Uniti e Gran Bretagna aiutino l’Australia a dotarsi di sommergibili a propulsione nucleare con l’obiettivo – non esplicito – di contenere la Cina: ciò può costituire violazione del patto firmato nel 1970 da tutti i Paesi del mondo (con l’esclusione di India, Pakistan, Israele, Sudan e Corea del Nord) che prevedeva che le armi nucleari possano essere possedute solo da chi fosse già dotato di quella tecnologia (Russia, Cina, Francia, Uk e Usa). Il secondo è che l’Australia non è parte della Nato e ciò sembra dare ragione al Presidente francese Macron che già qualche anno fa aveva dichiarato la “morte celebrale” di un’alleanza che nel suo stesso nome (Nord Atlantico) era pensata per garantire la sicurezza di un mare che non è più al centro della Terra.

Più ampio ma meno immediatamente efficace, è invece il Dialogo sulla Sicurezza Quadrilaterale (Quad) di cui gli Stati Uniti stanno proponendo un rafforzamento ad India, Giappone e la stessa Australia. Il Quad si focalizza sulla questione della “messa in sicurezza” delle catene globali di produzione e distribuzione di tecnologie - soprattutto i semi conduttori (chip) - e delle materie prime che sono indispensabili per far funzionare apparati industriali lanciati verso i traguardi della de-carbonizzazione. Sullo sfondo, vicinissima è Taiwan che ospita la più grande fabbrica di chip del mondo (Tsmc) e che sfidando la Cina (e un ordine mondiale che non ne riconosce l’esistenza) ha appena chiesto di entrare nel Tpp (l’area di libero scambio che include molte delle economie americane e asiatiche che condividono l’Oceano Pacifico, ma non gli Stati Uniti). E, del resto, nella lunga serie di mosse e contromosse, al Tpp hanno appena chiesto l’ammissione la stessa Cina e il Regno Unito (sfidando questi ultimi, persino, la geografia).

Difficile nella partita a scacchi tra Biden e XI Jinping, capire quali siano le intenzioni vere e chi stia vincendo. Tuttavia, chiarissima è l’idea che le partite più importanti si giocano, ormai, lontano dall’Europa. Del resto, se si prova a sommare la forza delle economie della costa occidentale dell’America e quelle di quella orientale dell’Asia (e con al centro l’Oceania), si arriva a più della metà del Pil del pianeta e, soprattutto, a contare tutti i protagonisti – imprese, governi, fornitori di materie prime cruciali – della rivoluzione digitale che sta cambiando tutto.

A questo punto, la domanda urgentissima è: cosa può ancora fare l’Europa per evitare il declino veloce che sempre accompagna chi rimane ai margini della storia? Tre sono le scelte che stanno diventando ineludibili. 

Innanzitutto, la necessità può diventare virtù e costringere i Paesi Europei a dotarsi di quella politica di sicurezza comune che per decenni è sembrata una chimera. Partendo, magari, dal nucleo dei fondatori – Francia, Germania, Italia – per sfuggire alla sindrome delle unanimità che bloccherebbe tutto. Un’Europa che risolva l’antico problema che poneva Kissinger – “chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?” – da Segretario di Stato, diventerebbe finalmente un alleato più rilevante per Stati Uniti e Gran Bretagna. In secondo luogo, in un mondo senza più un unico sceriffo e costretto a definire sfere di influenza, è realistico immaginare che all’Unione spetterebbe il compito di contribuire a stabilizzare la parte del mondo che più le è vicina: Nord Africa e Medio Oriente. Infine, potrebbe essere l’Europa a proporre un nuovo modo di proteggere la sicurezza che sia adatto ad un secolo caratterizzato da minacce che non vengono più da Stati ma da fantasmi: conterà più la capacità di integrare dati, sorvegliare città e montagne con i droni, prevenire attacchi biologici e digitali, che caccia costosissimi e ridondanti. È ormai nel Pacifico, il centro del mondo che le imprese degli esploratori italiani spostarono nell’Atlantico. Diventa questione di sopravvivenza per l’Europa anticipare un futuro che ci sta sfuggendo di mano ad una velocità che non riusciamo neppure a comprendere.
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