Ripresa a rischio/ L’assenza di meritocrazia che blocca questo Paese

Giovedì 15 Ottobre 2020 di Paolo Balduzzi

Nella lunga lista della spesa e, si spera, dei progetti strategici che il governo si appresta a stilare, alcune categorie riceveranno sicuramente un’attenzione particolare.

Avendone del resto tutte le ragioni. Per esempio, i lavoratori anziani e a rischio che devono essere accompagnati alla pensione; i disoccupati o gli imprenditori che hanno visto il proprio reddito ridursi considerevolmente; o ancora, le lavoratrici che a causa dell’emergenza sanitaria hanno dovuto abbandonare la propria occupazione. 


Le parole pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, da questo punto di vista, sono state molto esplicite: le risorse del Recovery Fund dovranno essere utilizzate anche per proteggere e stimolare l’occupazione femminile. C’è però una categoria che soffre, alla pari e forse anche più delle altre, ma che diversamente da queste non ha rappresentanza, non è soggetta a interventi specifici e, quando lo è, ottiene solo misure per lo più simboliche. Mi riferisco naturalmente ai giovani. Non che questi siano stati particolarmente penalizzati dall’emergenza economica e sanitaria; piuttosto, è vero il contrario: i giovani sono sempre stati penalizzati. 


A seguito dell’ultima grande recessione (2009-2013), per esempio, il tasso di disoccupazione nel Paese aveva raggiunto un livello del 13%, ma la componente giovanile (15-24 anni) raggiungeva valori superiori al 40%. 
E sono diverse le dimensioni che raccontano di questo fallimento: la qualità del sistema educativo, innanzitutto; ma anche la capacità del Paese di attrarre talenti (e di trattenerli, quando questi vedono nell’emigrazione l’unica possibilità di realizzazione); la mobilità sociale.

Proprio questi elementi, insieme ad altri, e cioè la libertà economica, le pari opportunità, la certezza delle regole e il livello di corruzione sono stati utilizzati per misurare la meritocrazia del nostro Paese. Questa ricerca, promossa dal Forum della Meritocrazia (Niccolò Boggian e Giorgio Neglia), con la collaborazione del sottoscritto e di Alessandro Rosina (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) misura a partire dal 2015 la performance del nostro e di altri 11 Paesi europei nel campo appunto della promozione del merito. Non sarà una sorpresa scoprire che, ancora oggi, l’Italia occupa l’ultima posizione: non solo nell’indicatore sintetico generale ma anche con riferimento a tutte le singole dimensioni. E se, nonostante questo quadro sconcertante, si vedono dei raggi di luce (per esempio, dal punto di vista delle pari opportunità), peggiora di anno in anno proprio l’indicatore della qualità del sistema educativo.

Il messaggio che emerge dai dati è quindi che l’Italia è un Paese non solo fermo ma che tende a frenare la sua componente più dinamica. A maggior ragione, quindi, tra i progetti che dovranno essere finanziati con le risorse del Recovery Fund, ci dovrà essere il rilancio del Paese stesso. A partire dal suo apparato burocratico che, come scrivevo la settimana scorsa, rischia di bloccare anche le migliori intenzioni e i più ambiziosi progetti. Ancora oggi la cronaca offre esempi tristemente calzanti di questa situazione. I provvedimenti attuativi dei decreti emergenziali sono fermi al palo: ne sono bloccati ben due su tre e con essi gli aiuti promessi a imprese e famiglie. Non solo: l’Ocse documenta come l’Italia sia all’ultimo posto perla velocità degli adempimenti fiscali.

Insomma, chi vuole investire e creare occupazione (e base imponibile), deve mettere in conto costi di tempo e di denaro superiore a quelli incontrati all’estero. E c’è infine un altro aspetto che bisognerebbe considerare. La maggior parte dei soldi che l’Italia riceverà dall’Europa sarà costituita da prestiti, vale a dire risorse che dovranno essere restituite nei prossimi anni, proprio da quei giovani che sempre meno restano nel nostro Paese e che sempre meno sono valorizzati quando decidono, nonostante tutto, di farlo. Una generazione per cui già oggi meno si spende rispetto all’Europa in istruzione; e che più di altre dovrà sopportare a livello contributivo il peso di un sistema pensionistico così squilibrato, ricevendo invece dallo stesso molto meno di quanto hanno potuto beneficiare la generazione corrente e le precedenti.

Potendo quindi scegliere, perché anche la beffa di far pagare ai giovani un prezzo ancora più salato? I prestiti che alimentano i fondi dell’Unione Europea avranno tassi pressoché nulli, compresi i fondi del Mes su cui ancora il governo non ha trovato una posizione chiara. Le stesse risorse, finanziate invece con titoli dello Stato italiano, costerebbero decine di miliardi in più, a causa del rischio più elevato per gli investitori. Non sarà quindi solo la progettualità del legislatore ma anche la sua saggezza economica che darà conto della volontà o meno di valorizzare le generazioni più giovani. Dimenticarsene oggi significa compromettere gli sforzi che il Paese sarà a chiamato a fare nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Un fallimento che l’Italia non può permettersi.

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