Il piano ospedali/ Le mosse necessarie per evitare il peggio

Martedì 3 Marzo 2020 di Barbara Gallavotti
Il 21 febbraio abbiamo per la prima volta sentito parlare di un focolaio del nuovo coronavirus in Italia. Il giorno dopo i 16 casi iniziali erano divenuti 60. Oggi, mentre scrivo, le persone risultate positive al nuovo agente infettivo sono 2041. Per quanto questo possa sembrare spaventoso, non è sorprendente. Come sottolineano gli esperti la vera partita la stiamo ancora giocando. In una settimana dovrebbe chiarirsi se siamo in grado di controllare la diffusione del virus nel nostro Paese. Se così sarà, si potrà tirare un primo respiro di sollievo.
Al momento, la diffusione dell’epidemia pare crescere in modo accelerato. Vuol dire che ogni giorno i soli nuovi contagi tendono a essere più di quelli dei giorni precedenti. Secondo i dati forniti dalla Protezione Civile infatti i casi accertati il 26 febbraio erano 171 più di quelli del 24 febbraio, il 28 febbraio se ne contavano già 488 in più rispetto a due giorni prima, il primo marzo erano 806 più del 28 febbraio. Dunque non è una accelerazione drammatica ma è ben percepibile. Tuttavia se il numero degli infetti dovesse crescere in modo incontrollato, il virus potrebbe raggiungere un terzo della popolazione. Non ci arriveremo perché si stanno applicando misure di mitigazione che ci si augura consentano addirittura di soffocare il focolaio nel nord Italia.
Sapremo fino a che punto sono efficaci nei prossimi giorni, visto che il periodo di incubazione della malattia arriva a due settimane e dunque al momento si stanno ancora evidenziando casi di persone che hanno contratto il virus prima che i provvedimenti di emergenza andassero a regime. 
Le misure di mitigazione sono essenziali per rallentare il diffondersi del contagio, come dimostra il fatto che così sta finalmente avvenendo in Cina, nella provincia da cui è partita l’epidemia. Certo sono necessari tempo e determinazione. 
Il meglio che possiamo augurarci è giungere ad avere ogni giorno pochi nuovi casi sporadici o almeno che ogni nuova persona infetta trasmetta il contagio al massimo a un’altra. Se così fosse la diffusione del virus si manterrebbe costante, sarebbe possibile garantire il supporto opportuno a ciascun paziente e si potrebbero spegnere i nuovi focolai sul nascere. In caso contrario, i conti suggeriscono una prospettiva allarmante. La Covid-19, cioè la malattia causata dal nuovo coronavirus, richiede assistenza ospedaliera in circa un caso su sei. Vuol dire che ad esempio su 10.000 malati occorre prevedere 1600 ricoveri e qualche centinaio di posti in terapia intensiva. Se i malati sono scaglionati nel tempo, il sistema sanitario può garantire quanto necessario. Se invece l’epidemia accelerasse troppo e le dimissioni non fossero almeno pari al numero di nuovi pazienti, allora i posti negli ospedali si esaurirebbero. Lo scenario peggiore è quello di arrivare a una sorta di cupo gioco della torre, in cui i medici si troverebbero a dover rifiutare dei pazienti. Se guardiamo al passato il confronto è ancora una volta con la devastante epidemia di Influenza Spagnola che seminò decine di milioni di morti nel mondo fra il 1918 e il 1919. Allora, come oggi, gli esseri umani si trovarono ad affrontare un agente infettivo nuovo, contro il quale non esistevano farmaci efficaci né avevamo evoluto alcuna difesa immunitaria. La grande differenza rispetto al secolo scorso è che oggi è possibile garantire un’assistenza sanitaria immensamente migliore. È questa nei casi più gravi a poter salvare la vita. Se il sistema ospedaliero collassasse ci troveremmo privi della nostra sola vera arma per difendere i più deboli. E non solo. Come faceva notare ieri l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, troppi malati manderebbero comunque in tilt il sistema, perché per funzionare la società ha bisogno di persone attive: infermieri, medici, ma anche forze dell’ordine e poi chi produce e distribuisce servizi e beni di base.
Dunque adottare misure di mitigazione è una necessità, non una precauzione. A questo punto in effetti parlare di “principio di precauzione”, come ancora a volte si sente fare è fuorviante. Il principio di precauzione afferma che in caso di pericoli seri per la salute degli esseri umani o dell’ambiente, devono essere prese misure preventive anche in mancanza di studi che forniscano un quadro completo della situazione. Ad esempio, se c’è il sospetto che una certa sostanza sia tossica, il principio di precauzione suggerisce di bandirla anche se ancora manca la prova scientifica definitiva sulla sua pericolosità. Per quanto sembri molto saggio, il principio di precauzione va maneggiato con cura. Fra l’altro possiamo attribuire a una sua interpretazione la chiusura dei voli diretti con la Cina decisa a fine gennaio e forse rivelatasi controproducente. In ogni caso ciò che sta avvenendo ora non ha più nulla a che fare con la precauzione. Da oltre dieci giorni non stiamo più giocando d’anticipo: stiamo affrontando il virus sul campo.
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