Corsa alle alleanze/ L’inganno del civismo una mossa copri-partiti

Giovedì 19 Settembre 2019 di Alessandro Campi
Convergere su candidati civici, facendo un passo indietro come partiti, è la proposta irrinunciabile che Luigi Di Maio ha fatto, a nome del M5S, ai suoi nuovi alleati del Partito democratico in vista delle prossime elezioni amministrative (a partire dalle regionali in Umbria del prossimo 27 ottobre). Evidentemente i tempi non sono maturi per un’intesa politica organica sul territorio tra due forze sino a un mese fa ancora nemiche. 
Un conto è aver fatto nascere un governo grazie ad un blitz parlamentare. Tutt’altro avere candidati o liste comuni a livello locale: una prospettiva difficile da far digerire ai rispettivi elettori in tempi così brevi.
Da qui l’idea di affidarsi alla società civile e alle sue forze migliori. Laddove l’indicazione di Di Maio, a leggerla con attenzione, non riguarda solo la scelta dei candidati alla Presidenza, ma anche le future ed eventuali giunte, che dovranno essere composte – in caso di vittoria – da personalità non politiche o comunque estranee ai partiti. 
A queste condizioni, i grillini sono disposti ad affiancare i democratici in tutte le prossime (e in alcuni casi davvero decisive) competizioni elettorali: Umbria, Calabria, Emilia Romagna, per limitarsi agli appuntamenti più imminenti. 
Dietro una simile proposta, opportunistica e non priva di furbizia visto che consentirebbe ai grillini di contare e incidere a livello locale più di quanto oggi non accada, è facile scorgere il mantra tipico del populismo: la politica è cattiva e corrotta, la società civile è buona e immacolata. Non c’è dunque nulla di nuovo se non fosse per l’inganno ideologico che essa, dietro la retorica del potere da restituire ai cittadini, sembra nascondere e sul quale vale la pena interrogarsi.
Cos’è il civismo, correttamente inteso? E cosa è stato, prima che degenerasse, nell’esperienza storica italiana? Per cominciare, il civismo non è la negazione della politica, ma un modo di partecipare ad essa – anche sul piano decisionale – senza utilizzare le formazioni partitiche tradizionali. Non fidandosi di queste ultime, per le più svariate ragioni, pezzi di società più o meno grandi si auto-organizzano politicamente: a difesa dei propri interessi (spesso di natura economica o territoriale) o per sostenere battaglie e posizioni ideali che si considerano trascurate.
Il civismo politico in Italia è nato così, alla stregua di un’aperta competizione con i partiti esistenti. Il primo esempio di una certa importanza si ebbe a Trieste nel 1978 con la lista cosiddetta del “Melone”, nata da un movimento d’opinione di stampo autonomista che si opponeva alla ratifica del Trattato di Osimo: alle amministrative di quell’anno ottenne, contro ogni previsione, oltre il 27% dei voti, riuscendo così a far eleggere sindaco della città un suo esponente, Manlio Cecovini, scrittore eclettico ed esponente di rango della Massoneria. 
Due anni dopo, dall’altra parte dello Stivale, a tentare la carta del civismo contro i partiti, accusati d’ogni nefandezza, fu un bizzarro personaggio oggi dimenticato ma a suo modo anticipatore di molte delle odierne patologie politiche: Giancarlo Cito. Nel 1980 fondò la sua prima lista “Taranto nostra”. Nel 1990, con un partitino denominato “AT6 per Taranto”, ottenne sei consiglieri comunali. Nel 1993, dopo aver fondato la AT6-Lega d’Azione Meridionale, divenne finalmente sindaco della sua città, ottenendo il 32% dei voti al primo turno e il 53% al ballottaggio. Una curiosità: AT6 stava per Antenna Taranto 6, l’emittente televisiva dalla quale Cito riempiva d’insulti e improperi tutti gli avversari politici e l’intera classe dirigente locale. 
Quelle trasmissioni furono l’inizio di quel mix di politica-spettacolo, personalizzazione, demagogia elettorale, voglia di novità a ogni costo, retorica della rottamazione, estremismo verbale e risentimento sociale travestito da denuncia morale che si sarebbe poi massicciamente diffuso nella vita pubblica nazionale a tutte le latitudini ideologiche.
Meno rabbiosa e qualunquista, ma egualmente intrisa di umori anti-partitici, di intransigenza moralistica e di spirito di protesta, sempre nei primi anni Novanta, fu l’esperienza della Rete messa in piedi da Leoluca Orlando a partire da Palermo nel segno della mobilitazione contro la criminalità organizzata, ma con l’ambizione di creare un movimento trasversale che tenesse insieme il mondo cattolico-democratico, la sinistra laico-progressista e quella ambientalista. In quel caso l’obiettivo polemico era rappresentato soprattutto dalla Democrazia cristiana, accusata di ambiguità (se non di collusione) nei confronti della mafia.
In Italia il civismo (con la connessa retorica sulle virtù della società civile) è naturalmente esploso col definitivo crollo, a causa di Mani Pulite, del sistema partitico intorno al quale si era strutturata la cosiddetta Prima Repubblica. Da quel momento, soprattutto nella politica locale, è stato tutto un fiorire di liste e listarelle cosiddette civiche: alcune frutto di mobilitazioni sociali dal basso, altre di interessi particolaristici e affaristici, altre infine di natura puramente personalistica. Tutte però accomunate dal fatto di essere state esperienze effimere o destinate a lasciare, anche quando hanno avuto un momentaneo successo, un’eredità politicamente modesta. La vitalità molecolare del civismo è stata in gran parte annullata dalla sua incapacità a radicarsi e durare. 
Ma da quel momento è successa anche un’altra cosa. Nato contro i partiti, il civismo ha finito per essere strumentalizzato e usato da questi ultimi, perdendo gran parte del suo significato originario. Ricorrere a figure civiche o apparentemente non-politiche, provenienti dal mondo delle imprese, delle professioni o della cultura, è stato infatti il modo attraverso cui i partiti, sia quelli di più recente formazione (ad esempio Forza Italia), sia quelli che erano sopravvissuti al crollo prodotto da Tangentopoli, hanno cercato di riconquistare la fiducia dei cittadini. 
E qui risiede quello che abbiamo definito l’inganno del civismo, così come è stato sempre più declinato in Italia. Cosa c’è di civico (se non la provenienza per così dire sociale) in candidati che vengono scelti direttamente dai partiti quando questi ultimi si sentono in difficoltà o si rendono conto di non avere propri esponenti da mettere in campo? Cosa c’è di civico, dunque di virtuoso, in liste e sigle che nascono non per forza propria e dopo una lunga sedimentazione nella società ma solo con l’idea di allargare il bacino di consensi dei partiti e che nella gran parte dei casi spariscono un attimo dopo la chiusura delle urne? Oltretutto parliamo di un civismo per così dire dell’ultima ora: ci si ricorda della società civile e dei suoi anonimi protagonisti solo quando c’è da confezionare le liste elettorali. 
La proposta avanzata da Di Maio sembra confermare questo carattere strumentale e puramente tattico del civismo, in questo caso giustificato dal fatto che il M5s, non avendo un grande radicamento sul territorio, ha tutto l’interesse ad “agganciarsi” al Pd, con un accordo di qualche tipo, per cercare di contare di più nelle assemblee locali. Un obiettivo per raggiungere il quale ci si vorrebbe nascondere dietro la foglia di fico di candidati apparentemente non legati ai partiti che in realtà sono scelti, avallati, sostenuti elettoralmente e al dunque controllati da questi ultimi.
Ma questa non è la “politica nuova”, è puro maquillage finalizzato al potere. Oltre ad essere il segno (al limite del paradosso) della cronica debolezza dei partiti italiani, che più si ostinano ad attingere risorse al loro esterno più si auto-delegittimano e perdono consensi. 
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