Il senso del voto/Protezione e identità, solo così la Ue può salvarsi

Lunedì 8 Aprile 2019 di ​Alessandro Campi
I lunatici in politica ci sono sempre stati. Non sorprende dunque il gran numero di simboli eccentrici che sono stati depositati ieri al Viminale in vista delle prossime elezioni europee. Anche se abbandonarsi all’ironia per il fatto che esistano il Movimento dei Poeti d’Azione o il Partito internettiano è segno di scarsa lungimiranza o di eccessiva supponenza. Dal momento che una forza politica fantasiosamente denominata Movimento Cinque Stelle, fondata da un comico in vena d’insulti e di vedute apocalittiche, è divenuta la prima in Italia nell’arco di appena cinque anni, anche Mirella Cece, leader indiscussa del rassemblement Sacro Romano Impero Cattolico, merita di essere seguita con rispettosa attenzione. Con gli elettorati ormai impazziti e disposti a tutto hai visto mai…

Ma la corsa a presentare per primi il proprio simbolo nulla ci dice dello stato d’animo con cui verrà affrontata la scadenza delle europee. Tradizione vuole che in ogni singolo Paese si voti per Bruxelles pensando alle questioni (e alle beghe) interne. Stavolta potrebbe essere diverso essendosi creata, almeno a livello mediatico e di minoranze politicizzate, una forte polarità tra europeisti e nazional-sovranisti. I buoni e i cattivi. Ma questi ultimi, come ha spiegato bene su queste colonne Luca Ricolfi, non necessariamente sono contro l’Europa: semmai ne hanno una visione diversa dai primi. 

Pensano ad esempio più che ad un super-Stato centralizzato e dirigista ad una pluralistica Europa delle nazioni. Una formula, quest’ultima, che non si capisce perché sia stata regalata alla propaganda dell’estrema destra visto che racchiude l’unica possibile reale di esistenza del progetto europeo: l’unità (politica) nella diversità (storico-culturale).

Quelli che erano apertamente anti-europeisti – lo abbiamo visto proprio in Italia con Lega e M5S – per pragmatismo e convenienza hanno nel frattempo smesso di chiedere il rigetto dei trattati o il ritorno alle divise nazionali. Anzi, il paradosso nel quale ci troviamo è che l’Europa com’è attualmente non convince nemmeno coloro che sulla carta ne sono i difensori d’ufficio: in modo più o meno radicale tutti ormai sostengono che debba essere riformata.

Le ultime uscite del presidente francese Macron da questo punto di vista sono emblematiche. Per rilanciare l’Unione ha proposto ai partner un piano molto ambizioso: la revisione totale degli accordi di Schengen, la nascita di una polizia europea di frontiera, la creazione di un Consiglio di sicurezza europeo, l’istituzione di un organismo adibito alla difesa della sovranità alimentare del continente, un ufficio comune per regolare il diritto d’asilo, una nuova politica per l’Africa (ma venendo da un sostenitore della francofonia come strumento di penetrazione ed egemonia nel mondo africano quest’ultima proposta fa un po’ sorridere). Lo si è presentato retoricamente come un Rinascimento politico. In realtà, è la prova che la sfida lanciata dai populismi, al netto delle condanne di rito, è più seria di quanto si voglia pubblicamente ammettere. I cattivi non avranno ricette e soluzioni praticabili, ma hanno comunque le loro buone ragioni, anche se spesso espresse con argomenti grossolani e toni aggressivi.

La questione centrale di questi ultimi anni è stata indubbiamente l’immigrazione, che ha risvegliato in molti paure antiche di invasioni e contagi. Si è visto nel bisogno di sicurezza e protezione espresso da molti cittadini uno scoppio d’irrazionalismo alimentato in modo opportunistico e irresponsabile da chi ha capito che il malessere sociale si può facilmente tradurre in voti. La diagnosi prevalente è che in Europa stia dilagando il razzismo: da qui gli appelli ai buoni europei a mobilitarsi prima che si torni ad un passato fatto di nazionalismi aggressivi e di intolleranza. 

Ma l’impressione è che sia una diagnosi sostenuta da un vuoto di idee (e di proposte) eguale a quello che si denuncia negli avversari, che più vengono dipinti come truci più fanno sentire migliori coloro che li condannano. Non sapendo cosa fare per il futuro, ci si batte contro un passato odioso evocato ad arte. Forse basterebbe considerare che il desiderio di protezione sociale non ha in sé nulla di regressivo o minaccioso: è la richiesta basica che si fa alla politica, ivi compresa quella democratica. Quanto alle paure che circolano nel continente, si parla molto di quelle prodotte dal multiculturalismo, ma la principale è in realtà quella causata dalla crisi economica. L’Europa ha funzionato come progetto politico e come orizzonte ideale finché ha redistribuito ricchezza, benessere e una relativa eguaglianza sociale, producendo al contempo integrazione. Da quando il rigorismo finanziario si è sostituito alle politiche di crescita e sviluppo non a caso, insieme ai divari di reddito e alle nuove povertà, è cresciuto il disorientamento elettorale, sono entrati in crisi i partiti popolari (cristiano-sociali e socialisti) ed è aumentato il malumore collettivo verso i tecnocrati che guidano il processo di integrazione. Quando si hanno un lavoro e un reddito garantito si bada meno al colore della pelle di chi si incontra per strada.

L’Europa dovrebbe dunque tornare ad essere protettiva e rassicurante, in primis sul lato materiale dell’esistenza di ognuno dei suoi abitanti. Ma dovrebbe anche essere capace di raccontarsi meglio, invece di proporsi come un dogma da accettare senza critiche o di un paradiso in terra che qualche milione di facinorosi si ostina a non apprezzare per pura ignoranza. Nulla ha nociuto in questi anni alla causa dell’europeismo più della retorica ufficiale che l’accompagna e della tendenza a proporlo come una pedagogia dall’alto dal sapore vagamente autoritario. Così come l’ha danneggiato l’idea che per avere un futuro comune gli europei debbano rinunciare alle loro memorie (e identità) secolari. Ma sull’oblio (e, peggio, sulla vergogna autopunitiva) del passato non si costruisce nulla di politicamente solido, a meno di non voler dare ai futuri europei solo obiettivi nobilmente generici: la pace globale, la salvezza ecologica del mondo, la tolleranza assoluta, la fratellanza universale. Quanto all’identità, si fa presto a dire che debbano essere evanescenti e plurali: ma nella vita di ciascuno si sa bene quando sia difficile costruirsi un Io o un’immagine di sé minimamente solida e riconoscibile anche agli altri, e quando sia difficile abbandonarla dopo averla adottata.

In questa situazione, ad opera di chi vuole salvare e rilanciare l’Europa potrebbe essere utile un bagno di realismo unito ad una maggiore inclinazione autocritica su ciò che non ha funzionato e sulle scelte sbagliate che sono state compiute. Inutile ad esempio richiamarsi ai ‘padri fondatori’ quando leader di quella fatta le democrazie odierne non riescono più a crearne. O continuare a scommettere sulla fine dello Stato dal momento che è l’unico modello politico al quale i cittadini continuano ad offrire la loro lealtà e obbedienza. Al tempo stesso, bisognerebbe anche ammettere che non è stata una buona idea allargare con troppa fretta l’Europa verso Est, inglobato Paesi che non avevano ancora metabolizzato la cattiva eredità del comunismo. 

Ciò detto, l’Europa unificata – soprattutto in un modo di grandi potenze continentali che lottano per il dominio sulla scena del mondo – è meglio del vuoto che potrebbe prenderne il posto se si sfaldasse, condannando ogni singolo Paese all’impotenza. Ed è con questa certezza in negativo, in attesa di tempi migliori e di cambiamenti reali che dovranno prima o poi arrivare, che molti si recheranno al voto fra qualche settimana.
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