Statali, caos buonuscita. L’Inps: «È lecito ritardarla. Il Tfs è diverso da quello dei privati»

Il 9 maggio la Suprema Corte deciderà sulla legittimità del pagamento differito

Giovedì 27 Aprile 2023 di Andrea Bassi
Statali, il caos buonuscita. L’Inps: «È lecito ritardarla. Il Tfs è diverso da quello dei privati»

La data del giorno del giudizio è fissata.

Il 9 maggio la Corte Costituzionale deciderà sulla liquidazione dei dipendenti pubblici. La domanda a cui i giudici supremi dovranno rispondere è semplice: è lecito pagare con ritardi fino a 7 anni la liquidazione agli statali? L’Inps, in una memoria difensiva depositata agli atti della Consulta, ha già dato una sua risposta. Affermativa. La prima considerazione che gli avvocati dell’Istituto di previdenza fanno, è che in realtà non è del tutto vero che i dipendenti pubblici non possono incamerare subito le somme della liquidazione. L’Inps a febbraio ha attivato un prestito a tasso agevolato (l’1%) che permette di avere un anticipo su tutta la somma. Se non si vogliono, insomma, attendere fino a 7 anni per avere il dovuto, basta presentare una richiesta di finanziamento agli uffici dell’Inps. 

Ma c’è anche un altro tema, secondo gli avvocati dell’Istituto. Va fatta una distinzione tra il Tfs, il Trattamento di fine servizio, e il Tfr, il trattamento di fine rapporto. Il ragionamento è centrale, e va seguito con attenzione. Il Trattamento di fine servizio è la vecchia “liquidazione”. Quella pagata agli statali assunti fino al 31 dicembre del 2000 ed è commisurata all’ultima retribuzione (circa l’80%). Dal primo gennaio del 2001, invece, tutti i dipendenti pubblici assunti, percepiscono come nel privato il Tfr, il trattamento di fine rapporto, che è una “retribuzione differita” trattenuta mensilmente in percentuale dello stipendio. Perché questa distinzione è importante? Perché secondo l’Inps tutt’al più è il Tfr degli statali che può essere soggetto alle stesse regole dei lavoratori privati e, dunque, potrebbe essere pagato immediatamente. Il Tfs, invece, no. Una tesi che se accettata dalla Corte, farebbe risparmiare miliardi di euro allo Stato. 

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I CONTEGGI

Questo perché nessun lavoratore pubblico assunto con il Tfr ha ancora chiesto la liquidazione, essendo in vigore per gli statali da 22 anni quando ne servono più di 40 per andare in pensione. Solo il prossimo anno andranno in pensione 150 mila statali che, per una media di 70 mila euro ciascuno di buonuscita, dovrebbero ricevere in tutto 10,5 miliardi dal Tesoro. Ma i ricorrenti la pensano in modo diametralmente opposto. Nella memoria depositata dagli avvocati che difendono un iscritto del sindacato Confsal-Unsa, che sui ritardi di pagamento della liquidazione combatte da anni, viene ricordato come sia stata la stessa Corte Costituzionale nella sua precedente sentenza, la 159 de 2019, a spiegare come non ci sia differenza tra il Tfr e il Tfs. Entrambe le indennità, hanno scritto i giudici, «si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase di uscita dalla vita lavorativa e sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo di agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momenti in cui viene meno la retribuzione». Non solo. La Consulta aveva sostanzialmente detto che un differimento poteva essere lecito per chi lascia il lavoro in anticipo (per esempio con Quota 100), ma era difficilmente giustificabile per chi esce a 67 anni con la vecchiaia. In questo caso la liquidazione andrebbe pagata subito. E i giudici avevano invitato il Parlamento ad intervenire. Ma nulla si è mosso. 

Con l’aggravante che intanto è arrivata un’inflazione galoppante. Oggi ricevere la buonuscita con 5-7 anni di ritardo, senza rivalutazione e senza interessi, equivale a un taglio del 25-30 per cento dell’assegno. Una sorta di tassa applicata sui soli dipendenti pubblici. Alla Corte l’ardua sentenza. 

Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 16:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA