In Italia l'occupazione ha recuperato i livelli del 2019, ma il numero di ore lavorate resta al di sotto del periodo pre-Covid. E questa ripresa diseguale ha acuito il problema delle retribuzioni per le fasce più esposte, quelle dei lavoratori poveri. Il rapporto Inps presentato ieri dal presidente Pasquale Tridico evidenzia problemi storici del nostro Paese, ma anche gli effetti dei fenomeni più recenti.
Da riforma pensioni a salario minimo, il lavoro che verrà
Ma le analisi dell'istituto previdenziale guardano anche più avanti, agli assegni previdenziali che attendono i lavoratori di oggi. Una simulazione esamina nel dettaglio la situazione della cosiddetta generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1980. Ovvero coloro che sono stati coinvolti nelle riforme che - a partire dagli anni Novanta - hanno reso più flessibile il mercato del lavoro. Questi lavoratori andranno in pensione con il metodo di calcolo contributivo: i dati evidenziano come il montante (da cui poi deriva il futuro trattamento) si riduca progressivamente a causa di carriere lavorative via via meno stabili. I nati nel 1980 dovrebbero lavorare circa 3 anni in più per ottenere lo stesso assegno di quelli del 1965, mentre tra un uomo nato in quest'ultima data e una donna più giovane di 15 anni la differenza arriva a 5 anni e 8 mesi. Per valutare l'effetto di una possibile introduzione del salario minimo proprio su coloro che hanno una contribuzione povera è stata effettuata una ulteriore simulazione, applicando proprio una retribuzione equivalente ai 9 euro l'ora: le differenze in termini di montante si attenuerebbero. Ipoteticamente, al compimento dei 65 anni, con un'attività lavorativa durata 30 (e quindi con 15 scoperti) e la contribuzione relativa al solo ipotetico salario minimo si raggiungerebbe una pensione mensile di 750 euro, che è comunque più dell'attuale trattamento pensionistico minimo.
GLI ANDAMENTI DEMOGRAFICI
D'altra parte il futuro del sistema pensionistico è pesantemente condizionato dagli andamenti demografici. Nel rapporto è riportato il bilancio tecnico delle gestioni amministrate dall'Inps. Con le tendenze attuali l'istituto avrebbe nel 2029 un patrimonio netto negativo per 92 miliardi, per effetto dei disavanzi che si accumuleranno anno per anno. È un dato che non deve preoccupare i percettori presenti e futuri di pensione, visto che le prestazioni Inps sono garantite dal bilancio dello Stato; dà però l'idea degli scenari che si stanno delineando, nonostante le riforme previdenziali degli anni passati. E a proposito di riforme, dal 2023 potrebbero essere introdotti ulteriori elementi di flessibilità, al posto dell'attuale quota 102: le diverse proposte hanno un costo variabile. Quella relativamente meno impegnativa dal punto di vista finanziario è stata portata avanti proprio dal presidente dell'Inps: prevede l'anticipo a partire dai 63 anni della sola quota contributiva della pensione ed ha un costo stimato di circa 2,5 miliardi al 2030.
Al di fuori della materia pensionistica, altre simulazioni riguardano gli incentivi all'occupazione, attuati normalmente attraverso decontribuzione. Il risultato generale è che questi interventi funzionano quando sono consistenti e mirati su categorie specifiche (come quelli riservati a giovani, apprendisti e donne). L'impatto positivo non si vede invece quando le misure hanno una portata troppo generale (come nel caso della decontribuzione Sud).