Carlo Bonomi: «Pnrr, i fondi “residui” vadano alle imprese. E il Mes è da cambiare»

Il presidente di Confindustria: «Se verrà trasformato in uno strumento di sviluppo industriale e di incentivo alla competitività, gli imprenditori saranno a fianco del governo»

Domenica 30 Aprile 2023 di Osvaldo De Paolini
Carlo Bonomi: «Pnrr, i fondi “residui” vadano alle imprese. E il Mes è da cambiare»

Presidente Carlo Bonomi, se il governo non si imbatte in altri inciampi domani avremo il decreto Lavoro. Qual è la valutazione degli imprenditori sulle nuove misure? Davvero con quell’impianto è possibile riattivare il ciclo virtuoso dell’occupazione?

«Prima di parlare del decreto Lavoro vorrei affrontare due importanti punti preliminari, due incognite che per le imprese significano incertezza sullo scenario entro il quale dovrebbero programmare i propri investimenti: la finanza pubblica e le scelte europee».

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Cominciamo dalla finanza pubblica, ovvero dal Def da poco varato dal governo che, merita sottolineare, ha ricevuto più di un commento positivo.

«Anch’io lo considero apprezzabile perché sposa la linea di grande prudenza che ha ispirato la legge di Bilancio ma, oltre alla prudenza di fondo, c’è un tema che merita di essere chiarito.

Si prevede una correzione sul deficit 2022 di 3,6 punti di Pil e per il 2023 di altri 0,8 punti. Inoltre in tre anni l’avanzo primario per stabilizzare il debito si prevede passi da -0,8 a 2 punti di Pil: in pratica 57 miliardi di risorse pubbliche in meno». 

E dunque?

«Mi domando come possano conciliarsi i margini strettissimi di queste previsioni con gli annunci di nuovi interventi per decine di miliardi a favore di ulteriori prepensionamenti o del Ponte sullo Stretto, quando non si intravede alcun piano di tagli o riallocazione della spesa».

La seconda incognita?

«Prudentemente il Def non incorpora stime degli effetti del Pnrr, visto che è difficile quantificare quanta parte di investimenti sarà realmente realizzata. Non a caso le stime di crescita del Pil riflettono negli anni questa incertezza. Ma ciò incide in modo negativo sulla propensione agli investimenti delle imprese». 

Eppure nell’allegato al Def dedicato ai piani di riforma c’è una lista infinita di misure che dovrebbero incentivare il dinamismo delle imprese. Penso al fisco, agli incentivi per le imprese stesse, a quelli per le nuove quotazioni, al Testo Unico degli enti locali, alle infrastrutture, alla logistica...

«Tutte proposte apprezzabili, nessuna però contiene una valutazione degli effetti sul Pil potenziale cui il governo mira né la fonte delle risorse per finanziarle. Ciò non favorisce le scelte di chi deve programmare la crescita della propria azienda».

La Commissione Ue ha finalmente completato la sua proposta di riforma del Patto di Stabilità. Ora si aprono tre mesi decisivi perché il governo tenti un’azione migliorativa nell’ambito del confronto tra Europarlamento, Consiglio europeo e Commissione stessa prima del testo finale che dovrà entrare in vigore nel 2024. Che cosa condivide e cosa invece vorrebbe cambiare?

«Prevedere un rientro annuale del deficit pari a mezzo punto di Pil in cicli di 4 anni non è un grosso problema: il Def stesso propone scenari più rigorosi. Ma attenzione, la discrezionalità affidata alla Commissione nel definire Paese per Paese le modalità di rientro sono molto ampie, dunque bisogna che l’Italia appaia molto credibile se vuole ottenere condivisione nella realizzazione delle sue politiche».

Non sarebbe più prudente proporre un ciclo non di 4 anni bensì di 7 anni, come la bozza del Patto prevede per i Paesi molto indebitati?

«Sicuro, però dovremmo dimostrare di saper varare riforme strutturali molto incisive affinché abbiano un impatto significativo sul Pil e sull’innalzamento dell’occupazione. Esattamente le riforme che il nostro Paese non ha mai affrontato».

Il Patto non prevede l’esclusione dal calcolo delle spese di tutti gli investimenti necessari a realizzare il Pnrr, a cominciare da quelli finalizzati alla transizione green e al digitale. Non lo trova incongruo?

«A giudizio delle imprese nei prossimi mesi l’Italia deve credibilmente battersi contro questo paradosso. Che senso ha escludere gli investimenti per le transizioni, per la ricerca, per acquisire indipendenza sul fronte dei chip, per realizzare l’Industria 5.0, per la difesa quando è l’Europa che ci spinge verso quella direzione? Battersi per questo obiettivo non è solo nell’interesse dell’Italia, ma è il modo per evitare che si frantumi il mercato unico, con Germania e Francia che sarebbero le sole ad avvantaggiarsi grazie alle deroghe sugli aiuti di Stato che hanno ottenuto e che usano massicciamente a proprio esclusivo vantaggio». 

Che cosa dovrebbe fare il governo per essere credibile, oltre a provare a realizzare quante più riforme possibili?

«Anzitutto presentare con grande rapidità a Bruxelles la lista precisa di riallocazione dei progetti Pnrr che non siamo in grado di realizzare. La nostra proposta è di destinare buona parte delle risorse che rimarrebbero “scoperte” verso incentivi all’investimento per le imprese, che sono di rapida attuazione e di più sicuro impatto sul Pil, non modificando le regioni di destinazione delle risorse».

Di queste sue idee ha parlato con esponenti del governo?

«Ne ho parlato negli incontri periodici con alcuni commissari Ue, e debbo dire che ho trovato grande interesse. Se non riusciremo a perseguire questo obiettivo, ritengo non sia utile per il Paese indebitarsi ulteriormente senza aver realizzato progetti che generano crescita». 

E sulla diatriba relativa al Mes, qual è il suo pensiero?

«Se il problema è che il Mes non è più consono all’obiettivo che vogliamo perseguire, allora proponiamo all’Europa di trasformarlo in un fondo per la competitività visto le risorse già stanziate (per l’Italia sono pari a 14 miliardi, ndr). La premier Meloni ha dichiarato di aver preso in seria considerazione la nostra proposta, ora auspichiamo che venga avviato quanto prima il dialogo con le istituzioni europee sull’argomento. Confindustria sarà al fianco del governo».

Domani vedrà la luce il decreto Lavoro. Che decreto sarà?

«Preferirei avere il testo approvato per commentarlo con cognizione di causa. In ogni caso, se verranno confermate le anticipazioni, posso dire che per noi è positivo che il governo continui nel progressivo superamento del cosiddetto Decreto Dignità. Quel decreto fu approvato con uno spirito ideologico figlio del trapassato remoto».

Effettivamente la ripresa occupazionale post Covid ha confermato che l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato continua a salire, smentendo così la narrazione che vede le imprese quali fabbriche di precariato.

«Un’accusa del tutto ingiustificata e figlia di una scorretta rappresentazione della realtà. Nella manifattura il contratto a tempo indeterminato resta il rapporto di lavoro assolutamente prevalente. Semmai è la crescente terziarizzazione della nostra economia a favorire rapporti di lavoro meno stabili».

C’è poi il tema del Reddito di cittadinanza che nel decreto sembra trovare un assetto definitivo. I criteri con i quali si procede al superamento vi trovano d’accordo?

 «Lo sforzo è apprezzabile, però abbiamo anche letto che alla fine nel testo resterebbe solo la Gil che sostituisce il Reddito quale sussidio alla povertà. Sembra di capire che non ci saranno misure per separare finalmente i sostegni alla povertà dalle politiche attive del lavoro. Il punto è che una riforma vera delle politiche attive del lavoro continua a mancare».

Che cosa impedisce che una proposta seria su questo tema giunga in Parlamento? In fondo è nell’interesse di tutti...

«La mia sensazione è che la politica continui a credere che l’occupabilità nel nostro Paese cresca solo a colpi di sgravi contributivi temporanei diretti a particolari categorie di lavoratori. Ne sono prova le anticipazioni sul decreto Lavoro, che prevede due anni di sgravi al 100% per gli ex percettori di Reddito assunti. È un’idea sbagliata: le imprese assumono coloro di cui hanno bisogno, non in base agli sgravi una tantum. Peraltro, come imprenditore sono contrario a ricevere contributi sulle assunzioni, perché il nostro mestiere è creare occupazione. Preferirei destinare quelle risorse al taglio delle tasse sul lavoro». 

Del resto è la ministra Calderone che ha detto che mancano i profili per un milione di posti di cui le imprese hanno bisogno. Come dovrebbe essere una seria riforma finalizzata all’occupabilità?

«Intanto il disegno di riforma dovrebbe avere durata pluriennale. Poi è necessario un coordinamento tra parte fiscale e quella contributiva, con il coinvolgimento del sistema scolastico e della formazione professionale. Soprattutto servono politiche attive del lavoro su base davvero paritaria tra i centri pubblici per l’impiego, oggettivamente inefficienti, e le agenzie per il lavoro private. Inoltre, tutte le risorse per le politiche attive andrebbero messe a gara, e attribuite secondo i migliori risultati ottenuti sul campo da ogni soggetto abilitato in termini di formazione e di nuovi addetti accompagnati a un impiego». 

Semmai si dovesse arrivare a un progetto simile, le imprese sono disposte a rinunciare a tutte le fiscal expenditures attualmente previste a vantaggio di questo o quel settore?

«Sicuro, però le risorse risparmiate devono andare a un taglio del cuneo contributivo permanente e universale dei lavoratori, e a finanziare politiche attive serie. Noi siamo pronti a questa scelta di responsabilità nazionale, ma la politica deve uscire dalla pratica dello scambio con questo o quel sindacato, con questa o quella coorte di occupati come si è invece fatto con l’Irpef in questi ultimi anni». 

L’Istat ha annunciato la prima stima del Pil del trimestre gennaio-marzo. Un dato incoraggiante, no?

«Il dato è positivo. Lo è in assoluto, mezzo punto in più di crescita sul trimestre precedente significa un tendenziale del +1,8% e una crescita già acquisita per il 2023 pari allo 0,8%. Lo è in termini comparativi, se guardiamo ad esempio alla Germania. E lo è perché conferma che il traino alla crescita è dato dal maggior valore aggiunto dell’industria e del suo export. L’industria italiana sa far bene il suo mestiere ma la politica deve aver chiaro che senza vere misure per la competitività sarà sempre più difficile ottenere questi risultati».

Ultimo aggiornamento: 15:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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