Gli studenti di economia, in quasi tutte le università del mondo, imparano presto che il mercato perfettamente concorrenziale è il meccanismo più efficiente per allocare le risorse: evita gli sprechi, rende massimo il benessere dei cittadini, tiene in vita un numero elevato di imprese che non possono esercitare alcun potere di mercato.
Anzitutto, bisogna ricordare che è da parecchi mesi che i prezzi di alcuni beni si stanno impennando. Già durante lo scorso autunno, quando nessuno pensava che una guerra in Ucraina fosse possibile, ci si preparava a bollette energetiche molto più care. E già allora si chiedeva allo Stato di intervenire, anche perché l’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche si sarebbe riversato sì direttamente sulle imprese ma anche, e doppiamente, sulle famiglie. Le prime, infatti, avrebbero visto ridursi i margini di profitto a causa dell’aumento dei costi di produzione; le seconde, oltre a delle bollette più elevate, avrebbero subito l’aumento dei prezzi dei beni proprio di quelle imprese che, per sopravvivere, si sarebbero trovate costrette ad adeguare i propri listini. L’effetto di queste dinamiche ha portato a registrare tassi di inflazione, cioè di crescita del livello generale dei prezzi, che non si sperimentavano da decenni, non solo nel nostro Paese. La paura che quell’inflazione portasse a un rallentamento della crescita economica ha perciò convinto molti governi a intervenire, prevalentemente sussidiando, almeno per le famiglie più bisognose, il consumo dei beni energetici.
In secondo luogo, è indubbio che la situazione rispetto ad allora sia profondamente mutata. Se fino a poche settimane fa le dinamiche dei prezzi potevano essere quasi totalmente ascritte al mercato, ora non è più vero. O, perlomeno, non è più così vero. Perché ad oggi i prezzi risentono di almeno due forze. La prima è ancora quella del mercato: ciò sconsiglia un intervento pubblico per calmierare i prezzi. L’errore che spesso si fa, a volte per semplice ignoranza ma a volte, più gravemente, per raggranellare qualche consenso, è che lo Stato possa stabilire i prezzi dei beni senza che ciò comporti conseguenze sulla loro distribuzione. Imporre un prezzo massimo di vendita a un produttore, come tanti chiedono di fare, significa ridurre la sua disponibilità a vendere, cioè l’offerta. Significa, in altre parole, che i beni scambiati saranno di meno. Una sorta di razionamento implicito per cui, in assenza di regole di approvvigionamento, verranno assegnati quei beni ai consumatori più veloci lasciando i più lenti a bocca asciutta. Che non sembra una soluzione ottimale al problema. Inoltre, se l’intento è ridurre la componente speculativa, è bene precisare che è praticamente impossibile scomporla dal prezzo, tanti e tali sono gli elementi che la determinano: indicare un numero, che sia il 5 o il 50%, è perciò privo di senso.
D’altro canto, pur in presenza di aumenti stabiliti dal mercato, cioè dall’incontro tra domanda e offerta, è un errore anche pensare che lo Stato dovrebbe astenersi dall’intervenire a prescindere. Perché in realtà lo Stato fa già molto e, in alcuni casi, moltissimo: distorce già i prezzi dei beni perché impone delle imposte indirette (Iva e accise) che, nel caso esemplare della benzina, costituiscono ben oltre il 50% del prezzo per il consumatore finale. In questo caso, lo Stato potrebbe, e anzi dovrebbe, sì intervenire: non tanto facendo un passo in avanti, quanto facendo un passo all’indietro. Rinunciando, cioè, a parte del gettito per far funzionare meglio il mercato. Questo sì che permetterebbe di ottenere il doppio guadagno di abbassare i prezzi e di aumentare l’efficienza degli scambi.
Stesso discorso per la bolletta energetica: rinunciando alle imposte, nonché ai cosiddetti “oneri accessori”, il costo per imprese e consumatori scenderà. Qualcuno obietterà che quel minor gettito metterà in crisi il bilancio pubblico. È vero; anzi, è ovvio: ma in questo momento, con la possibilità di indebitarsi senza eccessivi limiti e a tassi ancora sotto controllo, sembra un problema minore.
C’è però, come si ricordava poco sopra, una seconda forza che è intervenuta nella dinamica dei prezzi. Ed è la conseguenza della situazione contingente che stiamo vivendo. Non sarà ancora un’economia di guerra, come giustamente ci ricorda il presidente del Consiglio, ma è innegabile che il prezzo di certi beni, in particolare le materie prime energetiche e quelle alimentari, è l’effetto delle sanzioni, più o meno dirette e più o meno esplicite, che gli Stati stanno applicando e, in molti casi, anche subendo. Se almeno una quota dei prezzi non risponde più – o non solo - alle ragioni del mercato, non ci sarebbe allora nulla di scandaloso, forse nemmeno per i liberisti più accesi, nel pensare davvero a un organismo pubblico che vigili sugli aumenti di prezzi e intervenga ove questi superino dei livelli considerati ragionevoli. Un organismo che però abbia maggiori poteri di quelli oggi delegati a “Mister Prezzi”, il garante che opera dagli uffici del Mise che però si limita a segnalare le dinamiche sospette nella formazione dei prezzi all’Antitrust o alla Guardia di Finanza, affinché vengano esercitate azioni di moral suasion sugli operatori di mercato. E purché, sia chiaro, la ragionevolezza sia intesa come una dimensione economica che miri a stemperare gli eccessi e le anomalie, e non come una dimensione politica, che avrebbe come unica conseguenza di allocare le scorte in maniera del tutto casuale (o, peggio ancora, elettorale) e di impoverire ancora di più una popolazione sempre più allo stremo delle proprie forze. Economiche, ma anche nervose.