Piani aziendali, le vie del welfare sono infinite: le proposte per ammettere nuovi servizi alla defiscalizzazione

Mercoledì 1 Febbraio 2023 di Marco Barbieri
Piani aziendali, le vie del welfare sono infinite: le proposte per ammettere nuovi servizi alla defiscalizzazione

Salari bassi, alta inflazione. Pressione fiscale difficilmente comprimibile, almeno nel breve periodo.

Il welfare aziendale può introdursi in questa dinamica di recupero del potere di acquisto in progressiva riduzione per i lavoratori dipendenti? «Di certo non tutto si può caricare in busta paga», commenta con realismo Roberto Benaglia, segretario generale della Fim-Cisl. E aggiunge: «Nella contrattazione aziendale le prestazioni di welfare integrativo sono le più popolari. Non c’è aumento di stipendio che tenga se sull’altro piatto della bilancia c’è la possibilità di pagare la fattura del dentista per sé e per i propri figli». La considerazione tutt’altro che prevedibile viene dal vertice del maggiore sindacato del più cospicuo settore industriale del Paese: il metalmeccanico. Il welfare aziendale non ha forse bisogno di essere sdoganato ma di essere rilanciato sì. Dopo la Legge di Stabilità del 2016 – che consentì la conversione dei premi di risultati in piani di welfare aziendale (il tasso di conversione oggi è circa del 30% nel 70% delle aziende italiane che hanno sottoscritto piani di welfare), aprendo di fatto un mercato di servizi che ha fatto nascere un centinaio di provider – il tema è diventato obbligatorio.

Imprescindibile. Anche se esposto a una incertezza di prospettiva che non aiuta la programmazione.

IL CAPITALE UMANO

Durante e dopo la pandemia il tema del benessere in azienda – da tutte le politiche di work-life balance fino ai supporti psicologici per i lavoratori compresi nel catalogo delle prestazioni di welfare aziendale – si è fatto prepotente. Investire nel capitale umano ha voluto dire preoccuparsi di trattenere le risorse in azienda. Motivazioni, prospettive di carriera e tanta attenzione alla qualità della vita. Ed ecco che la quota di reddito attribuibile a prestazioni di welfare – defiscalizzata secondo le norme dell’articolo 51 del testo unico sulle imposte sui redditi – ferma dal 1986 a 258,23 euro (il corrispettivo del vecchio valore di 500mila lire), in meno di due anni si è vista alzare a 516, poi 600 fino a 3mila euro tra il Governo Conte 2, Draghi e Meloni. Ma con il primo gennaio 2023 si è tornati a 258,23 euro (oltre ai 200 euro per la bolletta energetica), riducendo di molto gli spazi di manovra contabile delle imprese per venire incontro alle esigenze dei propri dipendenti compressi tra il caro energia e l’inflazione. Montagne russe che disorientano il mercato. «Sicuramente, una stabilizzazione della soglia esentasse dei fringe benefit permetterebbe alle aziende di organizzarsi a lungo termine, migliorando la gestione dei propri piani welfare – commenta Fabrizio Ruggiero, amministratore delegato di Edenred Italia, il principale provider per numero di aziende clienti, circa 80mila – Arriviamo da anni particolari, vissuti in logica emergenziale, senza dubbio i provvedimenti adottati dai Governi negli ultimi anni vanno nella direzione di un riconoscimento stabile del valore dei fringe benefit come supporto economico concreto. Ci auguriamo che si prosegua su un percorso di valorizzazione che coinvolga l’intero sistema di welfare aziendale, comprendendo i numerosi beni e servizi dal valore sociale». Per il presidente di Aiwa (l’associazione che raccoglie i principali provider di welfare aziendale), Emmanuele Massagli, si tratta di allargare l’elenco di beni e servizi che si possano ammettere al beneficio fiscale (previsti nel comma 2 del citato articolo 51 del Tuir): «Dalle spese per il veterinario alle polizze vita, dall’uso di tutti i mezzi di mobilità sostenibile alle spese di affitto per i figli dei lavoratori che svolgano studi universitari fuori sede, fino alla cedibilità del credito di welfare individuale al mondo del Terzo settore». Più pragmaticamente Giovanni Scansani, docente all’Università Cattolica pone il problema della rivalutazione. «Non si comprende perché non si proceda all’ovvio: rivalutare, e indicizzare annualmente sulla base degli indici Istat del costo della vita, una soglia stabilita nel 1986 (le “vecchie” 500mila lire)».

FINALITÀ SOCIALE

 «Attualizzando l’importo si arriva a poco più di 600 euro – spiega Scansani – Se poi ai fringe benefit si volesse dare una finalità non solo economica, si potrebbero prevedere soglie di esenzione diverse e crescenti a fronte del rilievo sociale, oggi assente, della loro destinazione (ad esempio per i titoli destinati all’acquisto di prodotti e sostegni per i servizi di cura) oppure agganciando la loro crescente valorizzazione solo in favore di quelle aziende che abbiano effettuato scelte, facilmente accertabili in sede di verifica, di reale responsabilità sociale: essere una società benefit, avere ottenuto la certificazione di parità di genere, avere attivato meccanismi contrattuali di partecipazione diretta dei lavoratori». Intendiamoci, l’opportunità offerta tra novembre e dicembre di aumentare la soglia di defiscalizzazione fino a 3mila euro è stata colta con soddisfazione dal mercato. «Nei primi dieci giorni dello scorso dicembre, le aziende che hanno scelto le soluzioni fringe sono state il doppio rispetto a tutto il mese di dicembre 2021, segno della bontà dello strumento», commenta Ruggiero di Edenred. La norma è costata circa 150 milioni secondo le stime della Ragioneria di Stato e se fosse stata estesa a tutto l’anno avrebbe generato mancate entrate fiscali per circa 1 miliardo: troppo per le casse pubbliche.

I VOUCHER

Oltre ai costi per l’Erario, l’estensione della soglia di defiscalizzazione a 3mila euro avrebbe avuto il rischio vero di “voucherizzare” il welfare aziendale, che ha come sua ragione il valore sociale di prestazioni aggiuntive – integrative, sussidiate – che possano giustificare il “favor” fiscale. Il “fringe benefit” per comodità si riduce spesso a un buono da spendere – per la benzina o per una vacanza è lo stesso – che prescinde dal valore sociale della prestazione. In questo snaturando le ragioni stesse dei piani di welfare aziendale. Francesco delli Falconi, commercialista, consulente di molte aziende non solo sul fronte del welfare, ha un approccio radicale: «Bisognerebbe avere il coraggio di riscrivere la norma, definendo innanzitutto che cosa si intende per welfare e per welfare aziendale in particolare. Oggi è un’etichetta che comprende tutto e che troppo coincide sui fattori remunerativi. Secondo me non può aiutare a ridurre il cuneo fiscale. Deve aiutare a sostenere le reali esigenze socio-assistenziali dei lavoratori e delle loro famiglie». Massagli preferisce la strada del pragmatismo e per le proposte di Aiwa al Governo spera in un veicolo legislativo ad hoc: «Purtroppo la Legge di Stabilità è stata un’occasione persa. Il Milleproroghe sarà convertito senza modifiche sostanziali. Speriamo nell’annunciato decreto Lavoro». Tra polizze vita e cessione dei crediti welfare, Aiwa spera di trovare l’alleanza del mondo assicurativo e del Terzo settore. 

Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 11:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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