Il banchiere Giuseppe Guzzetti: «Dissi no a Cuccia perché Bazoli fu più convincente. Lo rifarei»

Mercoledì 4 Maggio 2022 di Rosario Dimito
Il banchiere Giuseppe Guzzetti: «Dissi no a Cuccia perché Bazoli fu più convincente. Lo rifarei»

Giuseppe Guzzetti compirà 88 anni il 27 maggio.

Forgiato nelle file della Dc con un imprinting di cattolicesimo sociale (fino alla scelta di un anno fa di iscriversi al Pd), per 25 anni è stato un protagonista del mondo bancario italiano. Comasco, pioniere della filantropia moderna, portabandiera dell’housing sociale combinato al welfare, ha aperto la strada alla collaborazione pubblico-privato e influenzato il sistema bancario spendendo le sue capacità relazionali per comporre nodi contorti, come la scelta di vendere la “sua” Cariplo ad Ambroveneto dopo aver detto no a Enrico Cuccia che voleva le nozze con Banca Commerciale.

Un solo rimpianto: non aver potuto portare a termine la missione del fondo Atlante per risanare i bilanci bancari afflitti dai crediti in sofferenza. La sua storia si incrocia con quella di Giovanni Bazoli, entrambi paladini della finanza cattolica, ma in un certo senso anche con quella di Sergio Mattarella.

Avvocato Guzzetti, cominciamo da Bazoli. Quando vi siete conosciuti?

«L’ho incontrato per la prima volta subito dopo la sua nomina a presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, nei primi anni ‘80. Ero presidente della Regione Lombardia e a me si rivolgevano quotidianamente piccoli risparmiatori che avevano acquistato azioni del Banco Ambrosiano di Calvi perdendo tutto; oppure piccoli imprenditori e artigiani che avevano dato a garanzia di appalti pubblici le azioni del Banco diventate carta straccia: cercavano disperatamente contanti per sostituire quelle garanzie. Tutti mi chiedevano di intervenire perché la “nuova” banca desse una risposta a queste drammatiche situazioni. Mi rivolsi a Bazoli che mi dimostrò subito di conoscere perfettamente quelle situazioni, tanto che insieme al professor Francesco Cesarini stava lavorando a uno strumento - i warrant - da offrire agli azionisti del vecchio Banco che col tempo avrebbero ridotto la perdita. Anni dopo un piccolo azionista mi raccontò che in quel modo aveva recuperato tutto l’investimento».

Lei ha ceduto Cariplo ad Ambroveneto invece che alla Comit. Con Cuccia che premeva, non fu una scelta facile.

«La Ccb della Fondazione Cariplo, in pratica il vertice, voleva dare un futuro industriale all’istituto poiché la concorrenza, soprattutto straniera, cominciava a farsi sentire. La Fondazione doveva anche assolvere l’obbligo di legge di cedere il controllo della banca. Si decise di porre alcune condizioni: la vendita doveva riguardare il 100%, il prezzo era determinato dal valore del patrimonio e doveva essere in contanti senza scambio di azioni. Inoltre, la Fondazione avrebbe investito parte della somma percepita nella banca nata dalla fusione. Le offerte economiche di Ambroveneto e della Comit erano più o meno simili, differivano però in alcuni punti sostanziali. Mentre Bazoli accettava l’acquisto per contanti (6.800 miliardi di lire) rinviando la verifica dei dati di bilancio ad una due diligence successiva al pagamento cash, l’offerta di Cuccia prevedeva 1.000 miliardi in contanti e la differenza in azioni Comit che avremmo ceduto sul mercato secondo un piano definito dalla stessa Comit. Ma se Comit in due diligence avesse sollevato contestazioni, si bloccava il pagamento in attesa di risolvere il contenzioso. Le due offerte furono presentate in Ccb: all’unanimità fu deciso di approvare l’offerta di Bazoli».

Non si è mai pentito di quella decisione?

«Come si fa a pentirsi di una storia di successo? Prima Ambrosiano-Cariplo in Banca Intesa; quindi la fusione con Sanpaolo. L’operazione Milano-Torino si deve alla lungimiranza e determinazione di due uomini: Bazoli ed Enrico Salza che superando difficoltà e resistenze molto dure soprattutto a Torino, hanno posto le basi per dare vita alla prima banca in Italia e ai vertici del sistema europeo. Va dato atto a Salza e Bazoli di aver gestito l’integrazione con grande equilibrio. La presenza nel capitale di cinque Fondazioni (Compagnia, Cariplo, Cariparo, Firenze e Bologna) ha reso più agevole quel compito, pur non avendo mai interferito nella gestione della banca».

Quale peso hanno avuto i manager?

«Decisivo. In particolare due, di grande valore e competenza: mi riferisco a Corrado Passera e Carlo Messina. Senza la capacità di Passera, l’integrazione avrebbe incontrato maggiori difficoltà e la nuova realtà organizzativa e manageriale non avrebbe potuto estrarre tutto il valore che l’operazione offriva. Messina era in banca da vent’anni, la conosceva perfettamente. Ha saputo rafforzare il core business verso lo sviluppo dell’economia del Paese e verso il sostegno di imprese e famiglie, allargando l’attività del credito a quella assicurativa. Ritengo che vada riconosciuto a Messina un altro merito, prima che ESG diventasse il mantra del secondo pilastro della democrazia, egli ha indicato strategie e destinato risorse alla sostenibilità, esaltando il privato sociale».

Lei ha guidato per vent’anni anche l’Acri, l’associazione delle Fondazioni bancarie, enti con anima doppia. Pensa sia il caso di aggiornare il protocollo stipulato con il Mef?

«Il processo legislativo che riguarda le Fondazioni si è concluso positivamente con la legge Ciampi, una legge di principi che ha definito bene tutti gli aspetti caratteristici delle Fondazioni a partire dalla definizione che sono enti privati senza scopo di lucro con autonomia statutaria e gestionale finalizzate al sociale sottoposte alla vigilanza di legittimità del Mef».

Non sempre però questa autonomia è stata usata bene. I casi delle Fondazioni Carige o Chieti o Mps parlano per tutti.

«La legge Ciampi fissa il principio della diversificazione degli investimenti ma non stabilisce un parametro quantitativo; lo fa il protocollo con il Mef stabilendo che le Fondazioni non possono investire più di un terzo del patrimonio in un singolo asset. Le Fondazioni che non hanno rispettato questo parametro sono cadute con il crollo della banca conferitaria».

Come si arrivò allo scontro con Giulio Tremonti, che da ministro del Tesoro voleva annettere le Fondazioni sotto il controllo della politica?

«Il conflitto riguardava che tipo di Fondazioni voleva quel governo: un ente subordinato e servente al governo e agli enti locali o un ente garantito dalla natura privata, dall’autonomia come stabilito dalla legge Ciampi sotto la vigilanza del Mef? La Corte Costituzionale confermò la natura privata e l’autonomia delle Fondazioni affermando che esse fanno parte dell’organizzazione delle libertà sociali del Paese, devono sostenere il terzo pilastro, il privato sociale, il volontariato, la comunità: senza di esse la democrazia va in crisi. Insomma, con la sua sentenza la Corte cancellò ogni discussione».

Si riaggiustarono i rapporti con Tremonti?

«Sicuro: il ministro si adeguò subito e da allora tra noi si stabilì una stretta e proficua collaborazione».

Lei è stato primo sponsor del fondo Atlante, nato per risolvere il problema delle sofferenze bancarie, i ben noti Npl. L’epilogo però non fu esaltante...

«Preciso subito che il fondo Atlante non venne costituito per salvare Popolare di Vicenza e Veneto Banca. In una riunione promossa dal ministro del Tesoro Padoan si discusse del mercato delle sofferenze (Npl): in Italia non esistevano compratori, non esisteva un sistema misto pubblico-privato. C’erano alcuni trader americani che in mancanza di investitori italiani, determinavano il prezzo a loro vantaggio. La conclusione fu che si doveva promuovere un soggetto italiano che eliminasse l’anomalia. Nacque Atlante, partecipato da banche e Fondazioni. Queste ultime investirono 500 milioni, non c’erano rischi, con un rendimento interessante. A raccolta ultimata di 2,5 miliardi, alcuni mesi dopo quando si stava definendo l’operatività di Atlante, fu convocata d’urgenza a Palazzo Chigi una riunione presente il premier Renzi, Padoan, il governatore Visco, Costamagna per Cdp e il sottoscritto per le Fondazioni. C’erano anche Messina (Intesa Sanpaolo), Ghizzoni (Unicredit), Massiah (Ubi). Oggetto dell’incontro era il salvataggio della Popolare Vicenza e di Veneto Banca (2,5 miliardi, ndr). Messina subito confermò la disponibilità a mettere 1 miliardo qualora per Veneto Banca le cose si fossero complicate».

Ma Unicredit però si tirò indietro.

«Sì, Ghizzoni riferì che il suo cda non avrebbe deliberato la garanzia promessa e pertanto Vicenza sarebbe stata a rischio di fallimento con tutte le conseguenze intuibili. È a questo punto che Padoan propose di utilizzare i 2,5 miliardi del fondo Atlante per salvare le due banche venete. Fu necessario modificare il regolamento di Atlante il cui oggetto prevedeva solo investimenti in Npl. All’assemblea di modifica fu approvato il nuovo regolamento nonostante la contrarietà delle Fondazioni, ma eravamo in minoranza. In realtà poi una parte dei 500 milioni fu recuperata da un credito di imposta riconosciuto alle Fondazioni».

È vero che il presidente Mattarella fu uno snodo strategico per il varo della legge Ciampi?

«Confermo. Quando come Acri lo incontrammo dopo la sua prima elezione, con sorpresa ci accorgemmo che il presidente era molto preparato in tema di Fondazioni. Fu lui a spiegarci il perché. Alla fine degli anni Novanta l’iter legislativo della Ciampi era finito su un binario morto alla Camera perché il Pds non condividendo le modifiche, non intendeva approvare la legge. Incontrai Ciampi chiedendogli di occuparsi della questione e alcune settimane dopo egli comunicò alla Camera che il testo del Senato era condiviso dal governo, chiedendo di approvarlo. La novità che Mattarella ci riferì è che il presidente Prodi aveva incaricato lui, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di presiedere una riunione dei ministri competenti per trovare il consenso e incaricare Ciampi di andare alla Camera per sbloccare la legge. Ecco perché era così informato sulle Fondazioni».

Avvocato, tra pochi giorni lei compirà 88 anni. Di bilanci ne avrà sicuramente già fatti. Che cosa l’ha gratificata maggiormente tra le tante attività cui si è dedicato?

«Le democrazie occidentali liberali si reggono su tre pilastri: lo Stato, il mercato, il terzo settore. Tutto quanto viene organizzato per un gesto di solidarietà senza contropartite. Questo è ciò che mi gratifica maggiormente. Non a caso, sono tuttora molto impegnato ad approfondire i temi della Comunità con la c maiuscola e del terzo pilastro. Continuerò ad andare in giro a fare la mia parte: il futuro della democrazia è nella Comunità». 

Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 07:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci