Messina: «Dal Sud al taglio del debito, ecco il nostro piano»

Giovedì 2 Agosto 2018 di Osvaldo De Paolini
Carlo Messina
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Negli ultimi due mesi è aumentata la percezione di un rischio Italia. C’è chi teme che tra fine agosto e inizio settembre possano scatenarsi nuove turbolenze sui mercati. Sono timori fondati? Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, la prima banca del Paese che ogni giorno gestisce transazioni per 40 miliardi, non si scompone: «Non vedo grandi preoccupazioni se la gestione dei conti pubblici prosegue nella direzione di un rapporto meno esasperato tra debito pubblico e Pil. Anzi, se ad agosto non vi saranno novità traumatiche lo spread potrebbe addirittura diminuire».

Messina, converrà che i primi provvedimenti del governo giallo-verde e alcune dichiarazioni rilasciate dai suoi ministri possono inquietare. I forti malumori espressi dagli imprenditori veneti sono più di un semplice percepito. Inoltre, siamo oggettivamente di fronte a una crescita ineguale e che sta rallentando.
«La ripresa può subire dei rallentamenti, d’altro canto sta accadendo anche nelle principali economie europee. Non possiamo però ignorare che le nostre aziende registrano buoni risultati. Anche i servizi migliorano e gli investimenti danno segni positivi, mentre l’export cresce a ritmi del 6% con un saldo di 90 miliardi annui al netto della bolletta energetica. Allo stesso tempo abbiamo aree molto ampie nelle quali la povertà è in aumento e la disoccupazione è troppo alta, specie nel Mezzogiorno. Si tratta di problemi che non possono essere rinviati. Ecco perché è necessario che la ripresa prosegua, possibilmente a tassi più elevati».

Tra fine agosto e l’inizio di settembre le agenzie di rating faranno sentire la loro voce. E, vista la frenata del Pil, potrebbe non essere amichevole.
«A settembre si entrerà nel vivo della legge di stabilità. Sarà quello il vero banco di prova».

Proprio sulla legge di stabilità si addensano timori. C’è chi teme una proposta da libro dei sogni, una messe di pretese improponibili per l’Europa.
«Se la manovra affronterà i temi della crescita con la dovuta attenzione al debito, non vedo ragioni per nutrire timori. Per parte mia, auspico un forte impulso agli investimenti infrastrutturali, il più formidabile motore della ripresa: se ben selezionati e gestiti possono avere moltiplicatori elevati. Mi auguro venga posta al più presto la questione dello scomputo degli investimenti pubblici dal parametro deficit/Pil. Nei rapporti con l’Europa, questa è una battaglia sacrosanta». 

Però noi abbiamo un serio problema che si chiama debito, una montagna che ormai sfiora 2.350 miliardi, con un rapporto debito/Pil tra i peggiori. Come possiamo risultare credibili se non riusciamo a ridurlo di un solo miliardo?
 «Altri fondamentali del nostro Paese sono solidi: un avanzo primario tra i più consistenti, un elevato saldo commerciale, una ricchezza privata, escludendo gli immobili, pari a 4.370 miliardi. Non abbiamo un problema di credibilità. Certo è che la riduzione del rapporto debito/Pil va affrontata con determinazione. Sarebbe necessario un taglio robusto, tra l’altro nel tempo consentirebbe l’alleggerimento del carico fiscale e aiuterebbe a promuovere la crescita».

Più volte si è detto che un taglio netto al debito segnerebbe una svolta per il Paese. Però più di un governo ha fallito vistosamente l’obiettivo.
«Eppure non è un obiettivo impossibile. Il valore complessivo degli immobili pubblici è stimato in 385 miliardi, circa 215 miliardi sono di proprietà dei Comuni. Si potrebbe dare vita a una serie di “fondi comunali aperti” con l’obiettivo di acquistare e valorizzare una parte di quegli immobili».

A quale scopo?
«Intanto va detto che questo solo fatto porterebbe a risparmi non irrilevanti per il Comune venditore: non è un mistero che la gestione degli immobili pubblici molto spesso comporta deficit di bilancio anche rilevanti. Peraltro, in questo modo gli enti territoriali potrebbero ridurre il proprio debito, disponendo subito di risorse fresche per effettuare nuovi investimenti». 

Chi dovrebbe acquistare le quote di quei fondi?
«Posto che banche, fondazioni e fondi pensione potrebbero avere un ruolo diretto, la proprietà delle quote del Fondo, e quindi degli immobili, potrebbe essere in larga parte dei cittadini residenti nel territorio. Il loro acquisto potrebbe essere incentivato da esenzioni fiscali modello Pir. In tal modo investirebbero in uno strumento poco rischioso e con un discreto reddito, oltre a godere di servizi locali migliori grazie alla riqualificazione degli edifici garantita da una gestione professionale».

Di quanto secondo lei dovrebbe ridursi il debito pubblico perché i mercati possano adeguatamente apprezzare?
«Il valore degli immobili oggetto dell’operazione, almeno in una prima fase, dovrebbe essere di circa 100 miliardi da collocare in 3 anni. Ma si potrebbe arrivare anche a 200 miliardi».

Ciò basterebbe a renderci più affidabili?
«I mercati finanziari percepirebbero che si è avviato un processo virtuoso di rientro del debito e sconterebbero il minor rischio; si realizzerebbe anche uno stimolo all’economia indotto dalla crescita degli investimenti locali con particolare beneficio per l’edilizia». 

Di recente avete aggregato tutte le attività assicurative del gruppo presentandovi come prima compagnia del Paese. Non temete di confondere i clienti sulla vostra mission? 
«L’erogazione di credito è e resterà la nostra attività centrale. Ogni anno le nostre erogazioni solo in Italia sono pari a 50 miliardi. Lo stock dei nostri crediti supera 400 miliardi. Ma oggi noi siamo tre cose: banca, assicurazione e motore dell’economia per il sociale. Proprio in relazione a quest’ultima mission abbiamo avviato un grande progetto per l’inclusione economica e per la lotta alla povertà, con una partnership che ci consente di erogare 10 mila pasti al giorno, 3.000 posti letto al mese oltre a migliaia di medicinali. Se fai buoni risultati come banca, puoi fare molte cose per il bene comune del tuo Paese».

Tanta generosità non pare però essere apprezzata dalla politica. Di recente Luigi Di Maio ha detto: «Il sistema bancario la deve pagare, perché fiono ad oggi ha avuto un atteggiamento arrogante infischiandosene dei risparmiatori e dello Stato». Probabilmente non alludeva a Intesa, però ha parlato di arroganza del sistema.
«Sono abituato a misurarmi con i fatti. Le 100 mila persone che lavorano in Intesa Sanpaolo hanno fatto della nostra banca un’eccellenza del settore a livello europeo. Dal 2014 abbiamo sostenuto 80.000 aziende nei progetti di rilancio che hanno consentito loro di tornare in bonis, tutelando così 400.000 posti di lavoro. Finanziamo i giovani e le micro-imprese anche in assenza di garanzie reali. Abbiamo un programma specifico per sostenere l’imprenditoria femminile. A settembre lanceremo un fondo che ci consentirà di erogare non meno di 1,25 miliardi di finanziamenti a studenti, ricercatori e start up».

Come procede l’integrazione con le due banche venete che avete assorbito due anni fa?
«Procede bene, abbiamo concluso prima del previsto. Il Nordest è un territorio per noi strategico, ben governato, sul quale continuiamo a investire in modo importante. Nonostante il suo dinamismo, ha tuttora necessità di strutture di sostegno. Ad esempio nel settore dell’housing sociale, sia per i giovani studenti sia per professionalità specializzate di cui hanno un gran bisogno le aziende locali ma che non riescono a attrarre per assenza di condizioni abitative al giusto prezzo. Noi siamo pronti a sostenere un progetto in questo campo, oltre che a finanziare piani di sviluppo delle infrastrutture del territorio».

Intesa Sanpaolo può avere un ruolo propulsivo di grande forza nel Mezzogiorno. Come vi state muovendo in Campania e nel Sud in generale?
«Per esempio favorendo il decollo delle Zone economiche speciali di Napoli, Bari e Taranto con lo stanziamento di un plafond di 1,5 miliardi. Inoltre, con “Impresa 2022” sosteniamo la crescita dimensionale e competitiva dell’imprenditoria tipica del Sud. Siamo a fianco delle sei aziende meridionali entrate nel programma “Élite” di Borsa italiana. Assistiamo oltre 500 imprenditori con piani di formazione sull’internazionalizzazione. Ma il nostro ruolo può avere un impatto ancora maggiore».

Che cosa significa?
«Abbiamo deciso di destinare l’ultimo piano di Palazzo Zevallos Stigliano, uno dei tre poli museali di Intesa Sanpaolo e sede storica del Banco di Napoli, a nuova sede di un folto gruppo di lavoro che avrà il compito di stendere in breve tempo un progetto capace di ridisegnare le principali infrastrutture del Sud - porti, centri di ricezione turistica, strade, mobilità in genere - per sviluppare finalmente una grande area turistica capace di competere, con opportuni incentivi fiscali, con Paesi come il Portogallo».

Un bel progetto, soprattutto pensando al tipo di offerta che si riuscirebbe a costruire tra arte, cultura, storia, bellezze naturali, accoglienza e cibo. Impareggiabile. Ma per il Sud c’è quindi solo il turismo?
«No, l’idea è di allargare il progetto allo sviluppo di un’agricoltura specializzata e alle manifatture proprie di quei territori. Un piano decennale, che sviluppi anche un’edilizia di qualità per attrarre il turismo più ricco».

Messina, sia sincero: davvero ritiene possibile la realizzazione di questo grande progetto in presenza dei limiti e dei paletti che vengono eretti quotidianamente attorno a società come l’Ilva o la Tap?
«Resto convinto, in entrambi i casi, che il governo può trovare le soluzioni che tutelino la salute e l’occupazione. Per la Tap sembra che la visita del premier Giuseppe Conte alla Casa Bianca abbia aperto scenari nuovi. Quanto all’Ilva, come Paese abbiamo tutto l’interesse a creare le condizioni che consentano a un leader globale, quale ArcelorMittal, di condurre in porto il suo progetto. Ne vale la pena».
Osvaldo De Paolini
Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 16:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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