Un'impresa può vietare di indossare il velo in nome della neutralità religiosa

Martedì 31 Maggio 2016
Un'impresa può vietare di indossare il velo in nome della neutralità religiosa
(Teleborsa) - Ove il divieto si basi su una regola aziendale generale, secondo cui sono vietati segni politici, filosofici e religiosi visibili sul luogo di lavoro, "tale divieto può essere giustificato al fine di realizzare la legittima politica di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro". La signora Samira Achbita, di fede musulmana, era occupata come receptionist presso la società belga G4S Secure Solutions, che fornisce servizi di sorveglianza e sicurezza nonché di accoglienza. Quando, dopo tre anni di attività presso tale impresa, ha insistito di poter indossare in futuro un velo islamico al lavoro, è stata licenziata, in quanto presso la G4S è vietato portare segni religiosi, politici e filosofici visibili. Con il sostegno del centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo, la medesima ha citato per danni la GS4 dinanzi ai giudici belgi, rimanendo soccombente nei primi due gradi di giudizio. La Corte di cassazione belga, attualmente investita della controversia, chiede alla Corte, in tale contesto, precisazioni quanto al divieto, previsto dal diritto dell'Unione, di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali. Nelle sue conclusioni odierne, l'avvocato generale Juliane Kokott sostiene che "non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro se tale divieto si fonda su una regola aziendale generale intesa a vietare sul posto di lavoro segni politici, filosofici e religiosi visibili e non poggia su stereotipi o pregiudizi nei confronti di una o più religioni determinate oppure nei confronti di convinzioni religiose in generale".  In un caso come quello in esame, si legge nelle conclusioni di Kokott, "il controllo di proporzionalità è una questione delicata, in relazione alla quale la Corte dovrebbe conferire alle autorità nazionali – e in particolare ai giudici nazionali – un certo potere discrezionale, da esercitare nel rigoroso rispetto delle prescrizioni del diritto dell'Unione". Spetterebbe, quindi, in definitiva, alla Corte di cassazione belga ponderare equamente, nel caso di specie, "gli interessi in gioco", tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti del caso concreto (in particolare delle dimensioni e della vistosità del segno religioso, del tipo di attività della lavoratrice e del contesto in cui ella è tenuta a svolgerla, nonché dell'identità nazionale del Belgio).
© RIPRODUZIONE RISERVATA