Sabrina Prioli: «Stuprata e torturata in Sud Sudan, ora aiuto le vittime di violenza»

Sabato 18 Settembre 2021 di Maria Lombardi
Sabrina Prioli: «Stuprata e torturata in Sud Sudan, ora aiuto le vittime di violenza»

«Una donna che ha subito violenza va stretta tra le braccia e protetta. Io non mi sono mai sentita protetta, mi sono dovuta proteggere da sola. Quando ne parlo mi viene da piangere. Ho sofferto tantissimo di solitudine. E non è giusto che sia stata abbandonata così, non è giusto».
Stuprata cinque volte, percossa e torturata per un giorno e mezzo dai militari dell'esercito del Sud Sudan. E ancora senza giustizia. «Un risarcimento di 4mila dollari è una vergogna, un'offesa. Questa non è la mia battaglia, è una battaglia universale. Mi batto perché la violenza sessuale usata come arma di guerra sia sempre e ovunque punita».
7 luglio 2016, Sabrina Prioli, aquilana di 46 anni, è a Giuba per un progetto di pacificazione, con l'impresa multinazionale Msi, Management System International, che lavora per le missioni di cooperazione Usa. Scoppia la guerra civile lampo tra le truppe governative di Salva Kiir e quelle di opposizione di Riek Machar.
«Eravamo ospitati in un compound della compagnia inglese certificata dalle Nazioni Unite. Siamo rimasti isolati sotto le bombe per una settimana, non ci venivano a liberare, non ci è stato assicurato un corridoio umanitario. Al settimo giorno sono arrivati i soldati della Spla, l'esercito governativo. Non erano quelli dell'opposizione, come volevano farci credere. Mi hanno violentata e torturata, massacrata la schiena colpendomi con i fucili, hanno anche tentato di uccidermi con il ddt, come me altre cooperanti. Finché non sono arrivati altri soldati a liberare gli ostaggi, colleghi di coloro che poco prima ci avevano attaccato. Io e un'altra collega siamo rimaste lì altre 24 ore».
Che danni le hanno lasciato quelle violenze?
«Tanti problemi fisici, mi hanno rotto il timpano, sono stata operata per la ricostruzione dell'ombelico, ho problemi neurologici alla schiena. Dietro il mio sorriso e la mia forza si cela una grande fragilità, ancora soffro di stress post-traumatico, sono sotto cura psichiatrica, prendo medicine, non mi vergogno a dirlo. Ho incubi bruttissimi, se sento un tuono o vedo un uomo in divisa, mi torna la paura. Basta avvertire un dolore e mi viene in mente la percossa».
E poi è cominciata la sua dura battaglia per ottenere giustizia.
«Sarà ancora lunga e faticosa. Sono riuscita a denunciare la mia storia riallacciandomi ad un processo civile avviato dalla società inglese proprietaria del compound. Nessuna delle nostre organizzazioni aveva denunciato le violenze, assurdo. Mi sono battuta per il diritto di essere risarcita e di ottenere giustizia. Ho preteso di poter testimoniare davanti la Corte Marziale del Sud Sudan, che il caso della violenza sessuale fosse aperto: ho parlato per sei ore, mi trattavano da colpevole. Ma dopo di me altre vittime hanno reso la loro testimonianza via Skype. Il 6 settembre 2018, la Corte Marziale ha condannato due soldati all'ergastolo, altri otto a pene dai 7 ai 14 anni di carcere. Ma la sentenza è stata assurda, solo 4mila dollari di risarcimento. Inaccettabile».
A che punto è la causa?
«Non mi sono potuta appellare dopo il verdetto del 2018 perché è stato distrutto il file record del processo. Sono riuscita a farmi ascoltare dal governo del Sud Sudan, minacciando che li avrei denunciati alla Corte Suprema dell'Africa dell'Est. Mi è stata proposta una negoziazione per il risarcimento, ma questa azione va avanti dal 2019. Mi hanno raccontato bugie su bugie. Nel 2020 ho capito che senza l'azione diplomatica dell'Italia non avrei avuto successo. Quando sono arrivate le interrogazioni parlamentari, si sono accorti della mia storia anche in Italia ed è cominciato un dialogo del nostro governo con quello del Sud Sudan, ma finora senza risultato».
Perché dice di essere stata abbandonata?
«Ho fatto tutto da sola. Non è vero che il governo italiano mi ha aiutata sin dall'inizio, come è stato detto. Ha preso in carico il mio caso dal novembre del 2020. Ho sofferto e continuo a soffrire per le continue rivittimizzazioni. Le persone che non capiscono il perché della mia battaglia e mi dicono: ma perché insisti? Ma chi te lo fa fare? Fai la tua vita e dimentica. Cosa sei andare a fare in Sud Sudan? Non lo accetto, continuo a combattere perché questa è una missione, lo faccio per tutte le donne che non possono. Spero di ottenere questo risarcimento, quando sarà lo renderò pubblico. Deve passare questo principio: non si può fare del male senza subire conseguenze».
Dopo le violenze ha lasciato la cooperazione. Di cosa si occupa oggi?
«Da sociologa specializzata in cooperazione ho lavorato in Africa e Sud America. Ma le mie ali sono state tarpate e non credo che rinascano in quell'ambito, anche se le ho fatte ricrescere. Il proposito di vita è lo stesso, l'ho tatuato: un'onda che cresce e diventa una schiuma bianca e nutriente. L'altruismo, la passione, l'irruenza. Adesso accompagno le donne attraverso il coaching, lavoro molto con le vittime di violenza e abusi: ho empatia, capisco il loro percorso che è stato anche il mio. Le aiuto a ritrovare la voglia di vita che è stata loro strappata, a sentirsi se stesse e ricominciare. Seguo gratis quelle che non si possono permettere di pagare il coach».
Tutta la sua storia è raccontata nel libro Il viaggio della fenice.
«Il libro è nato come diario personale per sbloccare le emozioni. Ne scriverò un altro sulla solitudine, la rabbia l'amarezza che si prova dopo la violenza, quando ci si ribella e si torna vittime».
 

Ultimo aggiornamento: 16:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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