Renato Zero a Verissimo: «Canterò in Paradiso», Poi il racconto che fa commuovere Silvia Toffanin

Sabato 26 Settembre 2020 di Valeria Arnaldi
Renato Zero a Verissimo: «Canterò in Paradiso», Poi il racconto che fa commuovere Silvia Toffanin

Renato Zero a Verissimo è stato il protagonista della puntata condotta da Silvia Toffanin. «Ogni promessa è un debito. Ho detto che sarei venuto. Ho mancato due volte per ragioni indipendenti dalla mia volontà, ma come vedi, sono di parola. Avevo un debito con Milano. Durante questa chiusura, abbiamo visto Milano essere aggredita un pochino più del resto di Italia da questa sciagura, mi è dispiaciuto perché ho lasciato Milano all’apice di un concerto, in una Milano scoppiettante che mi accoglieva al massimo del suo entusiasmo. Torno qui e trovo una Milano serena, mi rende molto felice».
 

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È con un pensiero a Covid e lockdown che Renato Zero entra nel salotto tv di Verissimo per raccontarsi in vista dei suoi settant’anni. Dal pensiero per Milano al racconto della sua vita durante il lockdown. «Ho questa compagna che ho conosciuto quando avevo quindici anni, la musica - racconta -  e lei non ha una ruga, io qualche segno lo accuso».

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Pubblicato da Verissimo su Sabato 26 settembre 2020


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Silvia Toffanin sottolinea l’aspetto giovanile dell’artista, che ne spiega le ragioni.
«Non si fatica a mantenersi giovani se si hanno l’intelligenza e la furbizia di mettere via. Non dobbiamo disperdere le nostre energie, dovremmo canalizzarle in un salvadanaio. Capitano anche momenti abbastanza amari nella vita, dove se non hai una scorta di coraggio e speranza, probabilmente soccombi. Io durante la pandemia mi sono rimesso a scrivere. Ho tirato fuori la macchina da scrivere. Di solito amo scrivere a penna, con la macchia da scrivere però… be’, quando batti un tasto lo scritto lo tieni per sempre, ci pensi due volte quindi prima di scrivere una cosa. Mi sono messo all’opera in previsione di questi 70 anni: mi sono voluto regalare tre album e li ho voluti regalare al pubblico».

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Il rapporto con il pubblico è fondamentale per Zero.
«Sono single, ma ho questa famiglia allargata, e me ne servo con rispetto tutte le mattine. Appena esco di casa, ho questa bella contaminazione umana, buona che ti fa sentire partecipe….».  
Martedì sera, per il compleanno di Zero ci sarà una super-serata su Canale 5. Ma mercoledì, come festeggerà il compleanno?
Io fuggo, come faccio di solito per una destinazione ignota. Il compleanno non è che mi rattrista, per me è un compleanno tutti i giorni, tutte le volte che apro gli occhi. Festeggio con una buona colazione, una passeggiata, una visita magari ad amici che non vedo da tanto, è bello festeggiarsi e festeggiare il pianeta con devozione tutti i giorni».

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Il compleanno è anche un’occasione per fare bilanci.
«Io sono della Bilancia…. devo dire che i bilanci ci stanno. Il bilancio non deve esser tardivo, se si rimanda, poi le cose si accumulano. I bilanci si fanno prima di addormentarsi. Tutte le sere penso un po’ alle persone che non vedo e mi ricordo di qualcuno che ha bisogno. Non tutti hanno avuto la consolazione di un pentagramma o di un palcoscenico. Nell’amico si trova la spinta, perché un farmaco a volte non basta».
Silvia Toffanin accompagna l’intervista, mostrando foto dell’infanzia di Zero.
«Promettevo di essere un borghese…», commenta l’artista, guardando una sua foto da bambino. «Mi sono guastato nel crescere», aggiunge, ridendo.
Come è stata l’infanzia?
«Non osavo guardare al futuro. Venivamo da una guerra, ci stavamo spolverando dalle ultime particelle di un conflitto, guardavo con l’incertezza di tutti, ovviamente di tutti gli italiani della mia età. Ero molto piccolo. Sono venuto al mondo con anemia emolitica abbastanza forte, Mi hanno trasfuso il sangue di un frate. Sono salvo per questo. La sensazione di essere con un piede dall’altra parte me la porto sempre addosso. E questo mi ha portato ad avere grande rispetto per la vita e a condividerla. Anche se sono single, alla fine non lo sono perché sono abitato da tutti».

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Un pensiero particolare va alla sua famiglia.
«La mia è stata una grande famiglia dalle origini molto umili. Io ho desiderato un fratello per dieci anni, Un giorno prima delle vacanze a mia madre diagnosticarono un fibroma, all’epoca era un evento tosto da superare, Passammo un’estate abbastanza dolorosa. Quell’estate era interminabile. Tornammo a casa a ottobre perché mio padre non voleva che vedessimo mia mamma in un momento difficile. Tornando, ho visto mia madre in un mercato vicino casa. L’ho vista, l’ho chiamata, si è girata e… aveva mio fratello. Ho tre sorelle meravigliose ma mio fratello doveva arrivare, sarei stato Cenerentola, lui è stato la mia fatina. È il mio migliore amico».
Uno spazio importante è dedicato al look.
«Prima mi sguerciavo a mettere il filo nella cruna dell’ago. Io mi cucivo da solo le mie vestizioni. Non avevo appoggi o sarte. D’altro canto, era bello crearsi un abito di quelle proporzioni».
Inizia così un lungo viaggio in alcuni momenti particolarmente significativi della sua vita e della sua carriera.
«Ho aperto al Brancaccio lo spettacolo di Jimi Hendrix, eravamo otto. Ci avevano raccolto in un locale che era sull’Appia. Hendrix passo vicino a me, fu come se fosse passato uno tsunami. Suonava in un modo.. addirittura mordeva le corde…».

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Nel suo percorso, anche il lavoro con Fellini.
«Lavoravo di notte per Fellini perché avrei percepito il doppio della paga e allora, siccome mi adorava mi faceva questi regali. Non era tanto importante lavorare per me, quanto vederlo dirigere. Questo spiare questi set era per me una ricchezza. Credo che quello che faccio oggi sia un po’ il prodotto delle esperienze vissute: la sartoria, il trucco, il parrucco, tutte queste attitudini le ho frequentate in prima persona. Sono stato davanti allo specchio, ho messo a disposizione la mia faccia, mettendo paillette sulle palpebre, sperimentando trucchi aztechi e altro. Quando arrivo in un teatro mi concedo un paio di ore in cui non voglio vedere nessuno e comincio a truccarmi, mi libero. Non so dove vado.. Devo eludere l’impatto imminente con il pubblico. Ogni volta prima di salire sul palco, mi trema la mano. Ho questa tremarella da quando ho iniziato qesto viaggio con lo spettacolo».
Nel 1967, “Non basta sai” scritto da Gianni Boncompagni.
«Ha venduto solo venti copie, è stato comprato da venti parenti. Però me lo meritavo, cantavo come paperino… Un po’ di obiettività e autocritica non hanno mai fatto male a nessuno. La disperazione però ti fa fare cose fantastiche. Picasso, Dalì dovevano essere pazzi come me. Ho spiato geni e molte volte me li sono ritrovati sedut accanto a me, come Morricone, Trovajoli, Sophia Loren. Quando vedevo questi grandi personaggi nelle prime immagini tv, li guardavo come a dire: “Chissà se esitono veramente….”. E la vita mi ha fatto il dono di averli come amici. Alcuni di questi amici saranno in scena martedì».

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Poi, il boom con “Mi vendo”.
«Quando arrivavo a casa alle cinque della mattina, cotto come una zampogna, mio padre apriva la porta di casa, vedeva la mia stanchezza e diceva: “Vedrai che ce la fai, vedrai che ti capiscono…”. Ho avuto con i miei genitori un rapporto sempre molto stretto, confidenziale. Sapevano sempre cosa mi passava per la testa, il motivo per cui un giorno non uscivo di casa. È importante l’alleanza in famiglia».
C’erano però anche attacchi dall’esterno.
«Io dovevo portare a casa il risultato Era la ragione primaria del mio vivere. No potevo non rincorrere non dico il successo, ma almeno un’affermazione, un contratto, una scrittura. Gli altri avevano la necessità di vedermi sprofondare in un anonimato definitivo o di essere talmente lontano dalle loro prospettive da non sentire più parlare di me. Invece, piano piano li ho fregati tutti, Il lavoro è stato duro, ci sono stati tanti “No", tante offese, ma c’è anche tanto amore alle mie spalle e anche davanti a me».
Ancora foto, ancora ricordi.
«Mi sembra di essere in paradiso, e qualcuno, a questo punto sei tu, come un angelo meraviglioso, mi fa vedere: vedi cosa hai fatto su questa Terra? Anche il Paradiso è una festa. Io canterò in cielo, ovunque mi troverò. Non avrò queste fattezze ma mi riconoscerai perché saluterò dicendo: “Ciao Ni’».

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La fede è molto importante per l’artista.
«Ho tre zii sacerdoti, sono stato a scuola dalle suore francesi, ho due cugini frati. Non è una questione di vicinanza, però. Dobbiamo proiettarci da un’altra parte che non sia solo la Terra».

Ripensando alla pandemia, dopo una battuta, guardando lo studio vuoto, Zero commenta:
«La pandemia ci ha tolto il pubblico, ma io lo sento anche se non c’è. Il fatto di sentire le persone anche quando non ci sono è una forma alta di considerazione verso gli altri, ma anche verso noi stessi, non ci sentiamo soli».

Non può mancare ovviamente un pensiero al figlio adottivo e alla sensazione di essere padre.
«È una sensazione forse iniqua. Io non posso coprirgli l’assenza fino ai suoi 18 anni, posso giustificare la mia presenza dai 18 ad oggi. E credo che quella parte di buio non potrà colmarla mai. Attraverso le sue figlie potrà riscoprire il gioco, l’affiatamento puro.  Non ci si improvvisa padri. Uno ce la mette tutta ma sembra sempre che manchi uno per fare due».

Zero è anche nonno.
«Essere chiamato nonno mi piace tantissimo. Sono un nonno con una bella tenuta. Le mie nipoti hanno una fisicità molto prorompente rispetto ai loro anni. Io sto avvisando tutti i ragazzi che si avvicinano: “Non ti azzarda’...”. Anche il padre è geloso. Credo sia un po’ il nostro ruolo, anche per le tante cose brutte che si sentono».

Parlando di famiglia, il pensiero corre ancora al pubblico.
«A volte questa massa di affetto è un macigno, ti senti anche inadeguato. Io in fondo volevo solo esistere».

Ultimo aggiornamento: 20:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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