Paolo Rossi: «Il mio teatro alza le difese immunitarie»

Giovedì 3 Settembre 2020 di Chiara Pavan
PANE O LIBERTA' La riflessione di Paolo Rossi
L’INTERVISTA
TREVISO “Su la testa”, ma niente revival anni ‘90 sulla scia della trasmissione che lo consacrò come il più rock dei comici italiani: Paolo Rossi spazza via con una risata «l’errore», l’importante è il titolo, “Pane o libertà”, progetto intrapreso con lo Stabile di Bolzano - in scena il 2 e 3 settembre al Del Monaco di Treviso, il 4 e 5 al Goldoni di Venezia e il 6 al Verdi di Padova nella stagione estiva dello Stabile del Veneto - «la mia risposta per alzare le difese immunitarie del pubblico». Evoluzione naturale di uno spettacolo concepito proprio nei giorni più cupi del lockdown, mentre portava alimenti nelle case di ringhiera della periferia milanese insieme alle Brigate Brighella mettendo contemporaneamente in scena rapidi live in cortile, “Pane o libertà” conta sulle musiche dal vivo degli Anciens Progiges e sulla grande abilità affabulatoria dell’artista pronto a rievocare «i miei sogni lucidi fatti di storie che aiutano a resistere», incontrando i maestri della sua vita, Fo, Jannacci, Gaber. Riprendersi i teatri dal lockdown: non facile.
«Siamo stati primi ad aprire a Milano, a recitare nei cortili, che sono i teatri elisabettiani. La gente sta nella propria abitazione, in cortile 20 persone distanziate. A Bolzano abbiamo unito le visite guidate ai musei alle prove dello spettacolo seguendo le regole. E ha funzionato. Ci siamo rimboccati le maniche».
“Pane o libertà”: titolo suggerito da...?
«Camus, “La Peste”. È uno degli interrogativi dei nostri tempi: la scelta tra mangiare e vivere, tra avere la libertà e morire di fame. Dipende da cosa si intende per pane. Si può anche pensare salute o libertà, lavoro o libertà. Più si cerca una delle due cose, più si deve concedere qualcosa dall’altra».
Non semplice.
«Non c’è un messaggio politico, sicuramente c’è un ragionamento. Recitare con il pubblico vuol dire portarsi a casa delle domande, che ogni sera possono essere diverse. Adesso è un periodo particolare, dove niente può essere più come prima. Sa lo slogan che circola, “non torneremo alla normalità?” Per me la normalità era il problema. Non offro risposte, noi artisti raccontiamo storie che portano domande a casa del pubblico».
Come muoversi allora?
«Per me il teatro deve diventare quello che è in momenti di svolta epocali: una sorta di parlamento buffo, un’assemblea, un’arena di un processo simbolico. Un teatro d’emergenza».
Che faccia cosa?
«Che porti a rompere la quarta parete, a distruggerla. Mi alleno da sempre a farlo. Ma rompere la quarta parete non significa che l’attore parla direttamente al pubblico, o che scende in platea. È anche il pubblico che sale idealmente sul palco. E per fare questo ci vogliono qualità, mestiere, competenza».
Una grande partita, questa.
«Che ci giochiamo adesso: vediamo chi è capace di farlo, chi sa portare il teatro nelle periferie, nelle zone estreme, lontano dal solito pubblico».
Perché in quest’emergenza il teatro è stato il più trascurato?
«Perché è il più pericoloso, perché ti tocca, perché oltre a darti conforto, ti provoca domande, e spesso non è bene. La gente non deve pensare. Se sei confuso, taci e acconsenti e ti lasci andare».
I suoi maestri?
«Erano grandi ladri. Fo diceva: rubare in teatro è da geni, copiare è da fessi, bella frase rubata a sua volta da Picasso. E Shakespeare? È il dio di tutti, il più grande ladro che la storia ricordi. Ha copiato e reinventato. Quindi noi artisti siamo fuorilegge».
La satira?
«Va e viene, è uno dei tanti attrezzi che il cantastorie usa. È figlia del suo tempo. Serve a farti vedere “il re nudo”. Ma se siamo tutti nudi? Serve un’altra via».
Cioè? 
«Recitando come abbiamo fatto noi durante il lockdown, con la gente. Sorprendendola».
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