Mafia, quattro storie di vittime venete innocenti in un podcast

Le vicende di Silvano Franzolin, Marco Padovani, Cristina Pavesi e Matteo Toffanin raccontate in un podcast di Avviso Pubblico

Venerdì 11 Novembre 2022 di Angela Pederiva
Il treno sventrato dall'ordigno che ha ucciso Cristina Pavesi

Fra le oltre mille vittime innocenti di mafia, ricordate ogni 21 marzo da Libera, almeno quattro sono venete. Il polesano Silvano Franzolin, carabiniere ucciso in una strage di Cosa Nostra a Palermo; il veronese Marco Padovani, imprenditore rapito dalla ndrangheta e poi morto suicida; la trevigiana Cristina Pavesi, studentessa ammazzata dalla Mala del Brenta nel drammatico assalto al treno; il padovano Matteo Toffanin, stagista assassinato da sicari siciliani per un tragico scambio di persona. A rievocare le loro storie è ora un documentato e delicato podcast, realizzato da Avviso Pubblico e finanziato dalla Regione, con la voce narrante di Agnese Piola, la produzione, le interviste e i testi di Antonio Massariolo, l'audio design di Tommaso Rocchi.

Ma soprattutto con i ricordi di chi ha incrociato le loro vite e ha sofferto per le loro morti, al punto da voler farne memoria.

Il podcast

Del resto è questo il senso dell'app Grmi Veneto, presentata a Palazzo Ferro Fini a Venezia e scaricabile gratuitamente dai dispositivi sia Android che Apple, attraverso cui può essere ascoltato il podcast "Storie di vittime innocenti di mafia" (presente anche sulle principali piattaforme di streaming audio). «A monte c'è un lavoro di otto anni con la Giornata regionale della memoria e dell'impegno, in cui sono coinvolti annualmente più di 5.000 ragazzi e quasi 300 insegnanti, la prima rete contro l'infiltrazione della cultura mafiosa», ha spiegato Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico. «È la cultura della morte che dobbiamo sconfiggere, quel buio della mente, la lunga notte e il sonno della ragione», ha aggiunto Roberto Ciambetti, presidente del Consiglio regionale.

Il carabiniere

A risvegliare le coscienze è la potenza del racconto. Come quello di Laura Fasolin, insegnante di Pettorazza Grimani, il paesino in provincia di Rovigo da cui era partito Silvano Franzolin, con il sogno dell'Arma. Il 41enne morì il 16 giugno 1982, quando l'Italia impazziva per il Mundial e la Sicilia sprofondava nella seconda guerra di mafia, durante i cento giorni di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu proprio il generale uno dei primi ad arrivare, «da solo e in borghese», sulla circonvallazione di Palermo, per cercare «i teli per coprire i corpi» di tre carabinieri, crivellati dai colpi di kalashnikov mentre accompagnavano il boss Alfio Ferlitto da Enna al carcere di Trapani. «Silvano era solo ferito, avrebbe potuto restare piegato in macchina, invece è sceso per provare a difendere i suoi due colleghi: ha creduto nel suo dovere fino alla fine». Alla sua memoria è dedicata una villa, a Salvaterra di Badia Polesine, confiscata alla criminalità organizzata.

L'imprenditore

Risale al 1982 anche l'inizio della fine per Marco Padovani, giovane imprenditore di Verona sequestrato il 13 dicembre davanti all'azienda di famiglia a Brendola nel Vicentino e incatenato per 160 giorni in un anfratto dell'Aspromonte. «Ricordo che non potevamo contattare la sorella maggiore Marina, mia ex compagna di università, perché all'epoca c'erano solo i telefoni fissi - rammenta la professoressa Maria Regina Brun - e lei passava tutta la giornata ad aspettare la chiamata con le indicazioni per il pagamento del riscatto di un miliardo, che è stato pagato, il che ha mandato in crisi Marco quando è rientrato. Si sentiva colpevole di aver creato dei problemi all'attività imprenditoriale del padre». Il 15 maggio 1985, a pochi giorni dal secondo anniversario della liberazione, il 31enne si tolse la vita. «È una vittima a tutti gli effetti delle mafie, perché il suo è stato un gesto di disperazione per l'esperienza tremenda che aveva vissuto».

La studentessa

È un giorno che ritorna il 13 dicembre: nel 1990 la 22enne Cristina Pavesi, che viveva con la famiglia a Conegliano e studiava Lettere a Ca' Foscari, stava tornando in treno da Padova, dov'era andata a parlare della tesi con il suo relatore. «Aveva una personalità vulcanica e stava per laurearsi, ma aveva intenzione poi di andare al Dams di Bologna, perché il suo interesse era l'arte, il teatro, la musica», confida la zia Michela, nella cui casa di Treviso quella sera arrivò la strana chiamata di una giornalista, che chiedeva informazioni su un incidente ferroviario avvenuto a Vigonza. «Ho telefonato subito a mio fratello Luigi e lui mi ha detto: Cristina è morta. Mi è caduto il mondo addosso. Nei tre giorni precedenti avevo fatto dei sogni che non avevo saputo interpretare: c'era un lunghissimo treno, uno spostamento d'aria, ma non ero io che morivo... Cristina è una vittima senza giustizia. Come mio fratello, che non ha superato il dolore. L'11 dicembre 1991 Luigi è andato dal parroco per ordinare la messa per il 13 dicembre, invece il 13 dicembre l'abbiamo seppellito. È stato terribile dopo, perché non abbiamo avuto nessuno accanto. E con il passare degli anni è venuto fuori questo mito di Felice Maniero: Faccia d'angelo... Il giudice che per primo ha parlato di mafia è stato Francesco Saverio Pavone». Michela Pavesi racconta di aver voluto incontrare sia Paolo Pattarello, che si trovava con Maniero nel treno Venezia-Milano in cui doveva esserci un vagone postale pieno di soldi, sia Gilberto Sorgato, che invece era appostato nella massicciata e propose vanamente di non farlo saltare in aria, visto che era in arrivo il convoglio dei pendolari. «Quella sera hanno saputo dalla tivù della morte di Cristina, non l'avevano messa in conto. Pattarello mi ha scritto che non riesce a darsi pace e Sorgato ha scontato tutti i suoi anni di carcere. Non sto scusando nessuno: il male resta male, ma c'è ancora un po' di bene. E io mi impegno perché il nome di Cristina, e quello di Luigi, non vengano dispersi».

Lo stagista

Nonostante tutto crede nella forza della moria anche Cristina Marcadella, che la sera del 3 maggio 1992 era appena rientrata a Padova con il fidanzato Matteo Toffanin, dopo una giornata a Jesolo. «Parcheggiamo l'auto dello zio di Matteo, ci stiamo salutando. Improvvisamente iniziano questi scoppi. I vetri dell'auto si infrangono tutti e io sento un forte dolore alle gambe, finché qualcuno apre la portiera e pensa che siamo morti entrambi. Ma io sono viva. Mi soccorrono mio papà e mia sorella, vengo operata già quella notte». Il delitto viene rivendicato con una telefonata alla Questura dai sicari arrivati dalla Sicilia. «Ho dovuto difendere me stessa ma anche Matteo, perché la polizia non credeva che noi non potessimo avere nulla a che fare con la criminalità organizzata. Durante un duro interrogatorio in ospedale, mi sono ricordata che anche un vicino aveva una Mercedes bianca come la nostra». Si trattava di Marino Bonaldo, un pregiudicato che doveva essere punito per uno sgarro e che invece scampò all'agguato. «Le indagini sono state chiuse dopo un anno, Matteo non ha mai avuto giustizia. I suoi e noi ci siamo sentiti soli, abbandonati dalle istituzioni. La ricostruzione delle nostre vite è stata totalmente sulle nostre spalle».

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