La saponificatrice di Correggio. I riti della serial killer, tra follia e magia nera

Domenica 27 Agosto 2017 di Carlo Nordio
La saponificatrice di Correggio. I riti della serial killer, tra follia e magia nera
Il Museo criminologico di Roma è uno dei più importanti al mondo nel suo settore, e non ha nulla da invidiare al più famoso Black Museum di Scotland Yard. Una volta, per i giovani magistrati, era quasi un obbligo farvi visita. Esso contiene principalmente strumenti di punizione e di indagine del buon tempo antico, quando - come oggi si dice - c'erano i valori: sedie chiodate, mordacchie, asce di decapitazione, coltellacci di carnefici, fruste di scorticamento, collari spinati, il mantello del boia papale e persino una vergine di Norimberga. Ma il suo settore più interessante è quello dei reperti di omicidi celebri.

Qui, in una teca, sono conservati un martello, un'ascia e un treppiede con i quali una signora madre di quattro figli scannò tre donne e le smembrò, per farne dolci e sapone. La signora era Leonarda Cianciulli, che a lungo sarebbe stata ricordata come la saponificatrice di Correggio.

Era a nata a Montella di Avellino, nel 1883. Aveva avuto un'infanzia disgraziata, e aggravata da sindromi malinconiche. Pare che avesse tentato di impiccarsi, e che la madre si fosse rammaricata che si fosse spezzata la fune. Ma le notizie della sua vita dipendono in gran parte dal memoriale che lei (o forse il suo difensore) scrisse durante la detenzione, e non sono molto affidabili. Quel che è certo è che ebbe un matrimonio infelice, funestato da una serie di lutti: ebbe tre aborti spontanei, e dieci bambini le morirono in tenera età. Gliene rimasero quattro, e per tutta la vita fu ossessionata dalla paura di perderli. Un giorno - così scrisse - le apparve in visione una specie di Madonna nera che le impose di barattare la vita di questi sopravvissuti con quella di altre persone. Da lì - sostenne lei - la necessità di ucciderne quante più poteva, per placare questa sorta di irritazione divina. In realtà, c'era di mezzo anche il denaro.
 
La prima vittima fu Faustina Setti, una settantaduenne infatuata dell'amore, che la Cianciulli attirò a casa sua con il pretesto di averle trovato un marito. La donna arrivò con alcuni beni e denari, e fu massacrata a colpi di accetta. Poi l'assassina la tagliò in nove parti, raccogliendo il sangue in un catino. Sui resti gettò della soda caustica e li gettò nel pozzo nero. Con il sangue fece dolci e pasticcini, che diede da mangiare alle ignare comari del paese. Solo Shakespeare, nel suo Tito Andronico, aveva immaginato tanta commestibile macelleria umana. L'assassina vendette i pochi beni della Setti, intascò i soldi, e li investì nel suo commercio di merci usate.

Poi fu la volta di Francesca Soavi, che al posto di un marito cercava un lavoro. La trappola fu quasi la stessa: la Cianciulli la invitò a casa assicurandola di averle trovato un impiego e raccomandandosi, come al solito, di portare i propri risparmi e di non parlarne con nessuno.

La mattina del 5 Settembre 1940 la poveretta si presentò, speranzosa: fu immediatamente ammazzata e fatta a pezzi. Anche qui l'omicida trasse il suo profitto, vendendo addirittura i mobili della Soavi, da cui affermava di averne avuto l'incarico. Come il dottor Petiot, che i nostri lettori forse ricorderanno, la sua crudeltà aveva una ferrea logica economica.

Infine toccò a Virginia Cacioppo, un'ultracinquantenne cantante lirica decaduta che viveva di ricordi illusori. La Cianciulli le prospettò un ingaggio a Firenze, e come nei casi precedenti le impose il segreto assoluto. Il 30 Settembre 1940 la poveretta si presentò puntuale, ancora orgogliosa nei suoi abiti consunti. Fu subito aggredita a colpi di accetta, e quindi sezionata. Questa volta la perfida cuoca descrisse il suo operato con dettagli minuziosi. «Finì nel pentolone - narrò come le altre due. La sua carne era grassa e bianca. Quando fu disciolta vi aggiunsi un flacone di colonia, e dopo una lunga bollitura ne vennero fuori delle saponette cremose accettabili. Le diedi in omaggio a vicine e conoscenti. Anche i dolci furono migliori. Quella donna era veramente dolce». Sembra di leggere una ricetta dell'Artusi.

Fu la sua avidità a tradirla. Consegnò a un amico un buono del Tesoro sottratto alla Cacioppo, e la polizia risalì a lei. La Cianciulli aveva preso le sue precauzioni: aveva convinto le vittime a scrivere delle cartoline che poi aveva fatto spedire dal figlio (forse ignaro) da posti lontani. Un espediente non particolarmente originale, ma nemmeno tanto maldestro. In ogni caso gli investigatori non ci cascarono, e sottoposero la donna a un buon interrogatorio: e alla fine lei confessò.

Si dovette attendere la fine della guerra per celebrare il processo. Finalmente, il 12 Giugno 1946, comparve davanti alla Corte di Assise di Reggio Emilia. L'accusa sostenne che aveva agito per avidità; lei si difese rievocando le condizioni impostele dai fantasmi d'oltretomba, secondo i quali l'unico modo di salvaguardare i figli era quello di dar loro in pasto una parte delle vittime. In effetti, la soccorrevole madre aveva propinato anche ai propri ragazzi i biscotti cucinati, è il caso di dirlo, in casa. Per corroborare queste stravaganze, scrisse, o fece scrivere, un memoriale, dove enunciò solennemente: «Ho studiato con zelo chiromanzia, astronomia, scongiuri, fatture e spiritismo: alla fine mi sono data alla magia». Un discorso che ricorda troppo l'inizio del Faust per essere farina di una semianalfabeta: evidentemente il suo difensore aveva buoni gusti letterari. Naturalmente fu sottoposta a perizia psichiatrica, affidata, come al solito, all'ormai noto professor Saporito, che concluse per una incapacità totale derivante da psicosi isterica. La consueta formula generica quando non si sanno che pesci pigliare. E come al solito la Corte gli credette a metà: il 20 Luglio 1946 Leonarda Cianciulli, ritenuta seminferma di mente, fu condannata a 30 anni di reclusione, e a tre di manicomio criminale.

Qui entrò, e qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1970. Passò il tempo ricamando, e confezionando dolci per le altre detenute. Ma nessuna li volle mai mangiare. «Credevano che contenessero qualche sostanza magica», si legge nella relazione dell'Istituto. Può essere. Ma forse, più semplicemente, non si fidavano della cuoca.
Ultimo aggiornamento: 14:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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