Giuliana Musso, la prigionia della "Scimmia" che parla di tutti noi

Lunedì 27 Gennaio 2020 di Chiara Pavan
Giuliana Musso in scena con il suo nuovo lavoro "La Scimmia"
MOGLIANO Quanto ci costa sopravvivere in un mondo violento che normalizza la violenza, che ingabbia gli esseri viventi in rigide gerarchie, che esalta una razionalità priva di empatia? Un mondo che obbliga a rinunciare al proprio sè per aderire a identità e persino a odori che ripugnano? Giuliana Musso guarda lontano: il nuovo lavoro della drammaturga vicentina, “La scimmia”, sold out l’altra sera al Busan di Mogliano, è ben più di un’amara riflessione sui meccanismi più subdoli e nascosti della nostra società che ci obbligano a pensare che l’unica via di scampo sia «rimanere in gabbia», ma uno sguardo disperato e feroce su un mondo che non riesce a riconoscere all’individuo la sua unicità. Riadattando il racconto di Kalfa “Una Relazione per un’Accademia” in cui l’autore si confronta con le proprie ferite dell’anima e quei nazionalismi che stavano attraversando l’Europa (era il 1917), Giuliana Musso ridisegna una nuova mappa fatta di piccole e costanti “conquiste” verso una razionalità che annienta i bisogni primari degli esseri umani. La storia straziante della scimmia che per sopravvivere alle torture e alla prigionia si “adatta” a diventare umana è un emozionante apologo che racconta ben più di quel che appare. Come nei lavori precedenti, e in particolare in “Mio eroe” o nel progetto “Medea, la città ha fondamenta su un misfatto”, Musso torna a riflettere sulla nostra distruttività, sul sistema patriarcale che continua a sacrificare umanità, emozione e sentimento sull’altare della ragione patriarcale.
LO SGUARDO
Il suo uomo-scimmia che ondeggia sul palco con una giacca lunga alla Charlot, zazzera arruffata e sguardo stralunato, sa che deve «deporre ogni resistenza e dimenticare» ciò che è stato. E con gridolini striduli, grugniti e grattatine improvvise - magnifico il lavoro sul corpo dell’autrice - spiega al pubblico come ha imparato a imitare gli umani. La sua non è la “relazione” kafkiana davanti ad una platea di accademici, ma un monologo-verità che prende vita in un contesto da varietà, tra una sedia da regista e una cornice luminosa alle sue spalle. Come il fool shakespeariano che si finge idiota per smascherare la realtà nascosta dietro l’apparenza o la vera follia insita nella saggezza, così l’uomo-scimmia di Giuliana Musso si esibisce sul palco svelando la sofferenza di una vita costretta a rinunciare alla propria natura per poter sopravvivere. Perché «non mi hanno rinchiuso per qualcosa che ho fatto, ma per qualcosa che sono». Il grande nodo sta tutto qui, nel dover diventare altro da sè, spezzando «la resistenza cellulare», piegando la chimica, trasformandosi nello schiavo «che ruba la frusta al padrone», arrivando a sorvegliarsi da soli. L’abisso sul quale si affaccia la scimmia è senza fine, Musso si ferma e guarda in faccia gli spettatori, li chiama in causa, spingendoli a vedere come l’ingresso “nella società degli uomini” sia soltanto un grande inganno. Feroce, diabolica e implacabile, la scimmia indica il baratro che ci inghiotte ogni volta che siamo disposti a cancellare la nostra identità per omologarci alla maggioranza . «La scimmia per quanto libera non può volare», ma forse, lassù sul palco, un piccolo spazio di libertà si può trovare. Nella speranza che l’arte resista alla violenza.
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