Gino Paoli, un estratto della sua autobiografia "Cosa farò da grande" scritta con Daniele Bresciani e in uscita il 2 novembre.
Io, in quel momento, avevo tutto. Successo. Soldi. La casa più bella di Genova, le due donne più belle d'Italia erano innamorate di me. Sapore di sale, uscita da poco, era in tutte le classifiche. Ripensandoci, forse troppo per un ragazzo di nemmeno trent'anni. Avevo tutto, sì. Ma non sentivo più niente. Ne hanno dette di ogni genere per cercare di spiegare. Questione di donne, è stata l'ipotesi più frequente. Io ero sposato con Anna, la mia prima moglie, avevo avuto una storia passionale con Ornella Vanoni e ne stavo vivendo una ancor più travolgente con Stefania Sandrelli.
I ROTTAMI
Quello che accade dopo è un volo che rivedo al rallentatore e senza sonoro, la strada scompare, nessuno che fiata, il tonfo sordo della ricaduta e la fine della corsa contro un cartellone pubblicitario. Arnaldo e io siamo ancora nell'abitacolo, gli altri tre sono sbalzati fuori. È Arnaldo a guardare per primo il mio viso sanguinante per le schegge del parabrezza e a capire che me la caverò. È lui a uscire per primo dai rottami e a trovare Giulio, urlante per la clavicola rotta, Ruccoli, che se l'è cavata con qualche contusione, e infine Pitt, più lontano, al bordo del marciapiede. Sembra svenuto. Nel frattempo arrivano la polizia e le ambulanze che ci portano al Fatebenefratelli, compreso il tizio dell'Alfa che è illeso. E quando caricano Pitt sull'ambulanza, Arnaldo sale con lui senza smettere di parlargli. Nel retro del mezzo, con loro, c'è una suora infermiera. È lei a riportarlo alla realtà: "Questo ragazzo è morto". Arnaldo descrive la mia disperazione in ospedale, dice che mi bloccano mentre mi lancio verso la finestra e che serve un'iniezione di tranquillanti per farmi tornare a una parvenza di calma.
E dice che ha subito ripensato a quella notte quando, dieci mesi dopo, mentre era ad Amsterdam per lavoro, ha letto sui giornali che mi ero sparato al cuore. In parte, credo, ha ragione. Provo a ripensare a me stesso, solo, nella casa di Genova, ai motivi che mi hanno spinto a fare una cazzata del genere Credo solo di aver detto fra me e me: "Hai tutto, molto di più di quello che ti serve. Hai visto tutto, non ti resta più niente da guardare. Perché non te ne vai a vedere che cosa c'è dall'altra parte? Che ti frega". Quella sera mia moglie Anna era uscita. All'inizio penso di usare i barbiturici. Prendo una pillola. Niente. Due. Niente. Tre, quattro, cinque, dieci. Le annaffio anche con dell'alcool, qualche bicchiere di calvados. Niente. Penso, mi butto dalla finestra. Ma non sopporto l'immagine di mia madre che mi vede sfracellato sul cemento della strada. Non voglio aggiungerle dolore a dolore.
Allora mi dico: ho due pistole. Adesso mi sparo. Le carico entrambe e le provo su un libro spesso, un grosso vocabolario, per vedere quale delle due arriva più in profondità. La Derringer calibro 5. Ha la canna lunga, più sostenuta. Per sicurezza, prima esplodo un altro colpo sul materasso. È quella giusta. Mi stendo, me la punto al cuore. Faccio un respiro. Premo il grilletto. Sento un dolore pazzesco, come se una montagna mi fosse precipitata sul petto, e poi più niente. Quello che succede dopo, ancora una volta me l'hanno raccontato altri. Giovanni Battista che mi trova sul letto coperto di sangue, gli occhiali neri spezzati, la corsa in ospedale San Martino, i medici che non riescono a svegliarmi non potevano sapere di tutto il sonnifero che avevo preso , mio padre e mia madre disperati per un figlio tanto stronzo, Anna e mio fratello sconvolti e gli amici che arrivano di corsa appena si sparge la voce. Passano in ospedale Umberto Bindi, Teddy Reno e Rita Pavone. Passa Ornella, di notte, per non destare troppa curiosità. Di nuovo i rotocalchi ci vanno a nozze. Viene anche Luigi Tenco, disperato, che non si dà pace. Mi rimprovera e continua a ripetermi ossessivamente: "Non si fa, Gino, non si fa Non si fanno queste cose". Me lo sarei ricordato, qualche anno dopo.