Roberto Gervaso, 80 anni da "grillo parlante"

Sabato 8 Luglio 2017 di Ario Gervasutti
Roberto Gervaso, 80 anni da "grillo parlante"
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Intervistare il re degli intervistatori è come giocare a calcio con Maradona: se vuole, non ti fa toccare palla. Ma Roberto Gervaso è più generoso di Maradona, ed è in vena di regali perché domani, 9 luglio, compie 80 anni. Sta benissimo, anche se uno «inquieto di natura» come si definisce lui stesso deve fare i conti con il cane nero, una malinconia strisciante che in alcuni momenti della sua vita è sfociata in depressione.
Strano, per un uomo di successo.
«Il successo l'ho pagato carissimo. Ed è giusto: nella vita si paga tutto, soprattutto quando è meritato. Perché se è un regalo non è più un successo».

Un successo cercato o casuale?
«Voluto. Per ambizione, vanità, perfino invidia. Motivi poco virtuosi, ma senza invidia non c'è emulazione, senza emulazione non c'è slancio. Sono difetti comuni a tutti, cambiano solo le dosi».
Quando ha capito di aver raggiunto il successo?
«A 27 anni, quando uscì il primo volume della Storia d'Italia scritto con Montanelli».

Un sogno coltivato per quanto tempo?
«Da quando avevo 18 anni. Prima, sognavo di fare il pasticcere: uscivo da una guerra, il sogno allora erano i bignè. Poi avrei voluto diventare Frank Sinatra, volevo fare il crooner ma non avevo l'ugola. È stato il più grande, anche se aveva un timpano perforato alla nascita dalla levatrice. Infatti il New York Times scrisse alla sua morte che se n'era andato il Mozart della musica leggera. Con l'altro timpano sarebbe diventato Bach».

Perché è diventato giornalista?
«A 16 anni andavo ancora dal parrucchiere: sembra incredibile, ma vedo che lei mi può capire. Ho visto sul tavolino il Corriere della Sera, non lo avevo mai sfogliato. In terza pagina, dove scrivevano le grandi firme, c'era un taglio basso intitolato Polli a Cinecittà, firmato da un certo Indro Montanelli a me sconosciuto. Raccontava una sua visita a una marmaglia di comparse romane durante la pausa pranzo: divertente, gustoso, ricco di battute e trovate. Da quel giorno, con la paghetta ricevuta da mio padre insegnante di educazione fisica, mi compravo il Corriere e ogni volta ritagliavo Montanelli per incollarlo su un album e leggerlo, rileggerlo, postillarlo. Annotavo tutti gli aggettivi e le espressioni che mi avevano colpito».

La migliore scuola. Come l'ha conosciuto?
«Come premio per la maturità classica andai a Roma, ospite di mio nonno Giuseppe e delle quattro sorelle di mia madre. Scrissi una raccomandata a Montanelli firmata Gervaso Giuseppe Roberto, che è il mio nome completo: era il 28 luglio 1956...».

Si ricorda perfino la data?
«Certe date, come il matrimonio, non si dimenticano. Il 30 luglio alle due del pomeriggio squillò il telefono. Era lui. Mi disse: ti aspetto domani a colazione. Appuntamento alle 13.30: uscii di casa alle 10 per fare un quarto d'ora di strada, caldo bestiale. Indossavo il mio unico bel vestito, un doppiopetto blu pettinato inglese pesantissimo. Un sudario».

A parte la sauna, fu così facile?
«Mica tanto. Mi disse: se vuoi fare il giornalista, da adesso devi indossare il saio del trappista. Scrivi otto ore al giorno, nelle altre divertirti. Con una borsa di studio partii per gli Usa: prima sguattero a New York, poi l'università del Michigan dove caddi in una psiconevrosi ossessiva. Tornai in Italia praticamente in barella. Il 4 aprile del 1961 mi fece assumere alla cronaca nera del Corriere: specialista in urti frontali con almeno tre morti e uxoricidi. Il capocronista era pragmatico: Macché depressione, vai a puttane. Vivevo in una mansarda stupenda da cui passarono le donne più belle e più brutte d'Italia».

Grandi maestri...
«Come non ce ne sono più. Oggi il vocabolario di un giornalista è di 300 parole. Ho grande nostalgia di quel mondo, c'era un grande rispetto per gli altri, per il lettore. Oggi nessuno ritaglia più, e non perché sono cambiati i mezzi. Non c'è più la grande scrittura; ma non ci possiamo ribellare, è così. Io continuo, è una gran fortuna, a scrivere sulla Underwood usata da Francis Scott Fitzgerald per creare Il grande Gatsby. Finché durano i nastri».

Chi è il personaggio intervistato che l'ha arricchita di più?
«George Simenon. Ha venduto 800 milioni di copie, aveva una ricchezza inimmaginabile e viveva in un borgo tutto suo con una clinica, governanti, fattori. Mi disse di aver avuto 9.000 donne, e credo che fu proprio questo alla base dei motivi per cui la figlia Marie-Jo si uccise, a 24 anni. Lui capì tante cose, e vendette tutto. A 60 anni si trasferì alla periferia di Losanna in una casa a schiera con un cedro del Libano in giardino».

La donna più bella?
«Rita Hayworth, e fu l'incontro che più mi fece pensare alla caducità della vita. Alcolizzata e malata di Alzheimer, seguiva la segretaria come un automa: una statuina di Capodimonte, con i mezzi tacchetti, le calze e il tubino nero, un pulloverino di cachemire rosa, il caschetto di capelli tinti, i lineamenti dolcissimi. Stava seduta in un angolo, senza dire una parola. Uscimmo per una passeggiata sul Sunset boulevard di Hollywood, si aggrappava al mio braccio. Lei, Rita Hayworth, che quando nel 46 uscì Gilda sembrava inarrivabile. Lì ho capìto tante cose: non era più lei, ma era il mito».

Ha incontrato anche politici mitici: chi ha lasciato il segno?
«John Kennedy era molto più brillante che intelligente, ma aveva tutti gli ingredienti che piacciono agli americani: bellezza, eleganza, cosmopolitismo, soldi. La sua era la cultura del Reader's Digest. È morto in tempo per non far emergere il bluff. Reagan mi chiese come va l'Italia, e gli risposi con una battuta che ho usato spesso: Sta in piedi perché non sa da che parte cadere. Lui mi rispose: Vedrà che in Europa presto qualcosa cadrà. Poi ho capito che si riferiva al Muro».

Le sono capitati tra le mani anche dittatori.
«Sono stato l'ultimo giornalista a intervistare Somoza. Nel suo bunker mangiai il migliore ananas della mia vita. L'indomani fuggì».

Personaggi sgradevoli?
«Coretta King, la vedova di Martin Luther: una razzista. Era seduta su una poltrona girevole davanti a una fruttiera di arance, che sbocconcellò dandomi la schiena per tutta l'intervista».

Il più gradevole?
«Salvador Dalì, a casa sua in Andalusia faceva così caldo che il baffo destro tenuto all'insù dalla pece cominciò a scendere lungo la guancia fin sul colletto. Gli chiesi com'era diventato Dalì: A forza di dire che ero un genio, lo sono diventato».

C'è oggi un intervistatore che può seguire le sue orme?
«L'importante è che non mi nominiate Fabio Fazio. Il simbolo di Capalbio, la Mecca del radical chic oggi diventata una necropoli. La sua fama è usurpata e dovuta solo a una ideologia che oggi non è più di moda. La prossima volta divento comunista anch'io».

A che cosa sta lavorando in questo momento?
«Sto scrivendo un libro, un pamphlet satirico alla Voltaire. Si intitola Che palle, in 120 pagine ripercorro la vita politica degli ultimi anni attraverso ritratti caricaturali dei vari Monti, Renzi, Letta, Berlusconi. Sottotitolo: la vera storia d'Italia per le poche persone serie rimaste».

Che regalo si aspetta per i suoi 80 anni?
«Un po' di quiete interiore. Ho avuto tutto, anche cose che non avrei mai immaginato. L'altro giorno ero a colazione con Berlusconi. Gli ho detto che ha fatto un errore, inevitabile per diventare quello che è: ha guardato sempre avanti e in alto. C'è invece un momento in cui devi guardarti dentro. Quindi fare bilanci, perché solo gli incoscienti non fanno bilanci».

E qual è il suo bilancio, finora?
«Ad oggi vorrei due epigrafi. La prima: Qui giace Roberto Gervaso, che ancora stenta a crederci. E l'altra: Ha sempre fatto il suo dovere, o creduto di farlo».
Tanto, c'è tempo.
Ultimo aggiornamento: 18:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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